Fraternità: un dono e un compito

di Maurizio Chiodi

Non è affatto semplice parlare della fraternità – che al femminile si declina come sororità –, anche e forse specialmente per noi cristiani. Il rischio è di cadere nella retorica ingenua o nei luoghi comuni di un facile irenismo. Proprio per questo, il tema si presenta ancor più intrigante.

Il corso L’altro: straniero, fratello o nemico? Fenomenologia per un’antropologia della fraternità è un’occasione per “scavare” le grandi questioni etico-antropologiche che stanno sotto la superficie. Papa Francesco, con l’enciclica Fratelli tutti e anche con altri interventi del suo pontificato, come il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, il 4 febbraio 2019, ha offerto un contributo decisivo per diffondere la coscienza della fraternità all’interno del vissuto ecclesiale e più ampiamente nelle relazioni tra le religioni e nei rapporti civili, sociali e mondiali. Proprio qui ci troviamo di fronte a un primo, grande interrogativo: il lessico della fraternità appartiene in modo specifico all’esperienza cristiana oppure riguarda tutta l’umanità? Se è vero che i cristiani tra loro si dicono e si chiamano fratelli e sorelle, non è forse altrettanto vero che essi tradirebbero il senso della fraternità se pensassero che questa appartiene in modo esclusivo ai rapporti intra-ecclesiali?

La domanda, prima che un interrogativo teorico, racchiude una sfida pratica di grande importanza. Il secolo scorso e i primi venti anni di questo, sembrano una smentita radicale al sogno della fraternità che, pure, a partire dal famoso motto della Rivoluzione francese, ha caratterizzato il nascere della modernità e delle democrazie europee. Populismi e sovranismi, diseguaglianze e guerre, ci appaiono oggi come il fallimento clamoroso della fraternità universale. Si tratta davvero di un sogno o, peggio, di una sorta di inganno?

La fraternità e la sororità sono esperienze inscritte nelle relazioni familiari: tutti sappiamo che cosa significhi essere fratelli e sorelle, anche chi non ha fratelli e sorelle, essendo figlio unico, perché la fraternità è proprio ciò che gli/le manca. Mio fratello e mia sorella sono, come me, figli di mio padre e di mia madre. In ciò, essi sono simili a me, ma sono anche altro da me. Nessuno si assomiglia come i fratelli e le sorelle, eppure ciascuno di essi è unico e diverso. Per questo non è scontato vivere come fratelli e sorelle, anche se fin dall’inizio lo siamo già: la fraternità e la sororità sono un dono che sollecita un compito e richiede di passare attraverso un processo drammatico, disteso nel tempo. Il dono, posto agli inizi della vita, ci precede e chiede alla nostra libertà di essere all’altezza del dono ricevuto.

Nella fraternità, inscritta nella propria carne, facciamo la prima esperienza di come l’identità – a livello personale e culturale – formi un intreccio inseparabile con la relazione: il sé si costituisce nell’incontro con l’altro. La relazione non si aggiunge all’identità, ma le è originaria. La fraternità “carnale” va però oltre la semplice esperienza familiare e annuncia qualcosa d’altro. La famiglia introduce a legami più ampi e complessi: al di là della parentela, siamo fratelli e sorelle di coloro che appartengono al nostro paese, il nostro popolo, la nostra cultura. Tutti costoro parlano la stessa lingua, condividono i medesimi costumi, abitano un unico territorio. Non c’è fraternità senza quest’alleanza culturale.

Proprio qui nasce un’altra domanda: siamo forse condannati a rimanere estranei o addirittura nemici dei fratelli e sorelle che appartengono ad altre culture e ad altri popoli? Anche a questo livello, sociale e culturale, ritorna il rapporto tra identità e alterità: “straniero” è uno che non appartiene al mio popolo e ha un’altra cultura. Non per questo, però, siamo destinati a restare estranei o a diventare nemici. Al contrario, come attesta la traduzione, c’è in noi un desiderio insopprimibile di incontrare l’altro che ci caratterizza come umani.

All’origine dell’esperienza umana universale, nelle sue varie forme, c’è dunque un legame che unisce tra loro i diversi, in una circolarità virtuosa tra identità e differenza, relazione tra sé e altro, tra l’umanità, il mondo e la terra, che è la nostra casa comune. Un tale legame racchiude e dischiude una promessa impegnativa, il cui compimento è affidato all’agire e all’impegno di ciascuno di noi. La promessa, data all’origine, apre al dramma dell’agire.

Per questo la fraternità è anche luogo di conflitto e di crisi. Come ogni incontro, essa richiede di entrare in relazione con un altro che ci è esteriore, senza tuttavia essere un estraneo, perché il legame con lui e con lei ci appartiene. Accogliere la differenza dell’altro significa, dunque, mettere in questione se stessi. Solo così la fraternità può mantenere la sua promessa, divenendo realmente luogo di comunione. Perfino il conflitto, la violenza e la guerra possono essere attraversati e superati nel perdono e nella riconciliazione. Papa Francesco, nella Fratelli tutti, mostra molto bene come proprio questo processo, tra i singoli e tra i popoli, a livello personale e politico, sia difficile e lungo, ma non impossibile.

Ultimamente, il perdono tra gli umani richiede la fiducia e questa sta alla radice della fraternità e della sororità. Una volta concessa, la fiducia ci permette di riscoprire la relazione all’altro. È una sorta di azzardo, ma non per questo è un assurdo. Perdonare significa credere che tuo fratello/sorella siano più grandi del male che hanno compiuto. Reciprocamente, confessare di essere colpevoli significa invitare l’altro, che abbiamo ferito, a guardarci con un nuovo sguardo, ma senza pretenderlo. Il perdono è un dono reciproco, seppure asimmetrico: può iniziare anche se l’altro non accetta di entrare nel processo, sia egli vittima o colpevole. Infine, perdonare non coincide affatto con il dimenticare, ma permette di scoprire che anche il male, pur irrimediabilmente compiuto nel passato, può essere ri-vissuto in modo differente, venendo così riplasmato.

La fede cristiana annuncia il compimento della fiducia reciproca senza la quale non c’è perdono. Proprio perché è “l’unigenito” (Eb 11,17), Gesù è anche “il primogenito tra molti fratelli” (Rom 8,29). Vivendo la fraternità nell’ospitalità reciproca, i cristiani testimoniano il legame che li unisce in Cristo. Impegnandosi a crescere nei legami fraterni e imparando dalle divisioni e dai fallimenti, la Chiesa si pone come un “sacramento di speranza” per tutta l’umanità. Essa è il segno, insieme umile e necessario, fragile e infallibile, che la grazia del compimento non è impossibile, proprio perché confessa di averlo ricevuto in dono. Così, pur immersa nel dramma della storia, la Chiesa testimonia una promessa che la supera, perché è destinata a tutti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(da Avvenire del 2 aprile 2023)