“Per essere più fedeli al Vangelo stop alla supremazia maschile”

di Luciano Moia

La Chiesa che deve imparare a declinarsi “anche” al femminile, superando secoli di supremazia maschile, scelta determinante anche per potersi esprimere su «alcune derive antropologiche dei nostri giorni». Ma deve anche mettere da parte metafore «che propongono modelli irraggiungibili», come quelle che attingono al lessico nuziale. Lo sostiene Anne-Marie Pelletier, teologa e biblista francese di fama internazionale, che venerdì ha presentato il suo ultimo libro La Chiesa e il femminile. Rivisitare la storia per servire il Vangelo (Edizioni Studium) nell’ambito di un dibattito (vedi articolo qui sotto) al Pontificio Istituto teologico “Giovanni Paolo II”.

Quali sono i mali più evidenti che si sono radicati nella Chiesa a causa dell’asimmetria di genere? Una Chiesa più femminile sarebbe una Chiesa migliore?

La Chiesa, come le nostre società, ha avuto la tendenza a formarsi dimenticando che è composta per metà da uomini e per metà da donne. Un rifiuto dell’ovvio che non è privo di effetti perniciosi. D’altra parte, sappiamo che le società che iniziano a rispettare meglio le donne e i loro diritti si trasformano a beneficio di tutti. Tornando alla testimonianza evangelica, dobbiamo ammettere che, su questo punto, la nostra fedeltà è stata tristemente carente. Oggi ci troviamo con le spalle al muro. La Chiesa clericale, che siamo costretti a deplorare, è una Chiesa senza alterità. È quindi una Chiesa che si sta soffocando e snaturando. Il problema è sapere se avremo il coraggio di essere chiari su questo, con le conseguenze che ciò comporta.

Perché “parlare dell’universale” è sempre stato un privilegio maschile?

È difficile affermare che si tratti di un dato invariabile della condizione umana. In ogni caso, è una realtà della nostra area culturale, a partire dall’antica Grecia e dalla sua pratica filosofica. Il maschio è dotato della capacità di esprimere non solo l’esperienza degli uomini, ma quella di entrambi i sessi. Il discorso delle donne, invece, non va oltre la loro esperienza particolare. Questo privilegio di una voce maschile inclusiva significa che non è necessario dare voce alle donne. Gli uomini parlano per loro, dicono cosa sono e cosa dovrebbero essere. Legiferano per loro, soprattutto per quanto riguarda il loro corpo. Abbiamo vissuto tacitamente su queste convinzioni, soprattutto nel nostro mondo religioso.

Lei scrive: “Una lettura attenta delle lettere di Paolo e degli Atti degli Apostoli mette in evidenza la presenza di donne che partecipano alla missione anche con funzioni di insegnamento, donne che sono al punto di partenza della fondazione delle comunità, come Lidia a Filippi”. Come mai questa funzione di insegnamento finisce per scomparire nei secoli successivi?

La testimonianza del Nuovo Testamento è chiara, se si è disposti a leggere le Scritture senza indossare gli occhiali del pregiudizio, che ignora la menzione delle donne nei testi. La metà dei nomi citati nei saluti finali di Paolo ai Romani sono nomi di donne, a volte con titoli notevoli. A Febe, ad esempio, viene dato il titolo di “diakonos”. Prisca è definita la sua “aiutante”. Si tratta di ruoli di autorità che vengono così evocati, e non di una presenza femminile subordinata o ausiliaria. Questi riferimenti mostrano l’audace novità ereditata dalla libertà di Gesù con le donne e sperimentata nella prima generazione. Per questo possiamo immaginare che queste pratiche apparissero trasgressive nella società circostante e che si volesse evitare di squalificare la fede. Da qui la normalizzazione che si riscontra negli ultimi versetti del corpus paolino, che ricordano alle donne che non possono avere autorità sugli uomini. Pertanto, devono tacere nelle assemblee e lasciarsi istruire con modestia dai loro mariti. Un principio che da allora è stato attentamente osservato.

Alla fine del IV secolo, in risposta al desiderio di una maggiore radicalità evangelica, prende forma la scelta della verginità consacrata. Perché lo slancio verso Dio porta alla negazione del corpo sessuato?

La valorizzazione spirituale della verginità consacrata va certamente vista come un’emancipazione della condizione femminile dovuta al cristianesimo. D’ora in poi, la donna poteva esistere pienamente senza essere soggetta all’autorità maschile, sia essa del padre o del marito. Il dramma è che questa realtà si accompagnava alla promozione molto problematica di una tradizione ascetica importata, che squalificava il corpo e la sessualità. Anche se la Chiesa rifiutava ufficialmente questa posizione, era segnata da una duratura sfiducia nella “carne”. Se la verginità consacrata è soprattutto l’espressione di un attaccamento spirituale esclusivo, essa tendeva a essere intesa in termini di integrità fisica, un punto di applicazione per molte fantasie. Correlativamente, il matrimonio veniva implicitamente svalutato. La sessualità è stata legittimata al solo scopo di procreare, producendo la repressione di una dimensione costitutiva di ogni essere umano, di cui oggi misuriamo in particolare i pericolosi effetti.

A lei non piace la metafora nuziale spesso utilizzata, “Cristo sposo della Chiesa sposa”, che finisce per pesare come un macigno sulle spalle degli sposi cristiani. Cosa c’è di sbagliato in questo?

Innanzitutto, ricordiamo che la metafora nuziale ha un’indiscutibile legittimità scritturale. Serve a insegnare la profondità dell’alleanza stabilita tra Dio e Israele. Lungi dall’essere un semplice contratto, l’alleanza è rivelata dai profeti come una questione d’amore. Non si tratta quindi di scartare questa metafora. Ciò non ci impedisce di percepire meglio oggi alcuni dei pericoli legati a questa immagine, che ha necessariamente l’effetto di associare Dio al maschile. Il femminile viene identificato con l’umanità, con le sue debolezze e infedeltà. Niente di tutto ciò conferma nella mente delle persone, inconsciamente, la superiorità dell’uomo sulla donna. Il testo della lettera agli Efesini, tradizionalmente letto nelle Messe nuziali, va necessariamente in questa direzione. Inoltre, tende a dare alla coppia Cristo-Chiesa come modello per gli sposi. Questa può essere una visione sublime del matrimonio, ma è pericolosamente idealistica. Rischia di imporre alle coppie un modello irraggiungibile, negando la realtà di una vita matrimoniale che si costruisce faticosamente attraverso gli alti e bassi del rapporto vissuto quotidianamente.

Le teorie di genere, affrontate senza estremismi e senza pregiudizi, scrive, potrebbero favorire una riflessione approfondita sul ruolo della donna nella società e nella Chiesa? Perché negli ultimi vent’anni la Chiesa ha considerato le teorie di genere un pericolo per l’antropologia cristiana?

Le teorie di genere hanno indubbiamente problematizzato una certa rappresentazione tradizionale dell’identità di genere, mostrando ciò che essa deve allo sviluppo culturale. In questo modo, ci costringono a riconoscere che non siamo uomini o donne esattamente nello stesso modo a seconda che viviamo oggi in un villaggio dell’Anatolia o in una megalopoli del nostro mondo occidentale. In altre parole, le nostre identità non sono semplicemente fissate a priori, come realtà di natura, che sarebbero definite indipendentemente dal nostro inserimento storico e culturale. In ogni caso, il dato biologico viene trasmesso e interpretato da rappresentazioni e pregiudizi che costituiscono la base della vita di un gruppo sociale. È una realtà che possiamo trovare destabilizzante e dalla quale possiamo cercare di fuggire. Temo che questo sia proprio il riflesso dell’istituzione ecclesiastica, quando fa lo spaventapasseri delle tesi estreme delle teorie di genere, permettendole di negare la realtà dei pregiudizi che entrano nella percezione del femminile nelle società così come all’interno della Chiesa.

In che misura la Chiesa e l’educazione ispirata a una certa mentalità maschilista sono responsabili della violenza di genere che è ancora presente in tante famiglie e causa di tanta sofferenza?

Mostrando un ordine diseguale che regola le sue pratiche, sia nel governo che nella liturgia, la Chiesa conferma necessariamente i pregiudizi maschilisti di cui oggi le nostre società denunciano l’iniquità. Così facendo, la Chiesa continua ad allontanare le donne. Inoltre, rovina la credibilità di cui avrebbe bisogno per esprimersi su certe derive antropologiche delle nostre società. Per non parlare del fatto che si mostra cieca di fronte alla novità evangelica che è responsabile di manifestare, in particolare quando questa riguarda il rapporto tra uomo e donna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(da Avvenire di domenica 26 febbraio 2023)
scarica il pdf