Famiglia versione digitale. Non fermarsi, non correre

di Andrea Ciucci

Tutti sappiamo che la tecnologia, e in particolare modo la trasformazione digitale, sta cambiando la nostra vita. Forse non tutti, però, hanno la consapevolezza di quanto profondo e veloce sia tale mutamento. Così veloce e così profondo che talvolta il mondo adulto pensa di poter continuare a vivere, come singoli, come società, anche come comunità cristiana, in un modo sostanzialmente ancora analogico, cioè secondo quelle forme e quelle pratiche con cui si è cresciuti nel secolo scorso. La percezione è che tecnologia sia ancora soltanto uno strumento, spesso molto efficace, talvolta estraniante.

Non è così. Non lo è dal punto di vista quantitativo (raramente abbiamo coscienza di quanto tecnologiche siano le nostre vite e il nostro mondo), non lo è soprattutto dal punto di vista qualitativo: la qualità digitale dell’esistenza riplasma le nostre esperienze secondo logiche e paradigmi nuovi. No, i chip che troviamo nelle nostre auto e nelle lavatrici, le numerose app che utilizziamo quotidianamente sui nostri smartphone, gli algoritmi che regolano ciò che vediamo e non vediamo sui nostri social, non sono solo raffinati strumenti. Essi ridisegnano il nostro mondo, e noi stessi.

Prima di gridare allo scandalo e ricordare sdegnati i bei tempi in cui usavamo il telefono duplex, vale la pena ricordare cosa è successo durante il lockdown. Nel giro di due settimane abbiamo trasferito la quasi totalità delle nostre vite su piattaforme digitali, portando a compimento irreversibile una trasformazione già in atto. Grazie a computer e piattaforme abbiamo continuato a lavorare, studiare, incontrarci, giocare, coltivare i nostri hobby (anche quelli moralmente riprovevoli come la pornografia e il gioco di azzardo che dilagano sul web), addirittura pregato e fatto catechismo. Non riusciamo neanche a pensare cosa sarebbe potuto essere un lockdown senza internet. Abbiamo odiato il pc e lo abbiamo benedetto.

Nelle comunità cristiane qualcuno grida alla distruzione dell’umano e delle forme che la bimillenaria storia cristiana hanno generato. Altri sono invece entusiasti delle potenzialità offerte dalla rete e, senza avvertenza alcuna, inneggiano all’occasione perfetta per un annuncio evangelico davvero fino ai confini della terra. Altri ancora (forse la maggioranza) evitano toni eccessivi e vedono più semplicemente il digitale come un linguaggio nuovo, da utilizzare soprattutto se ci si vuole rivolgere alle nuove generazioni.

E qui facciamo l’errore più grande. Il digitale, dicono gli esperti, non è uno strumento, piuttosto è un ambiente; non lo si utilizza ma ci si vive immersi. I ragazzi che hanno meno di vent’anni ci sono addirittura nati e per questo li chiamiamo nativi digitali. Pensando di trovarsi davanti a un semplice cambio linguistico qualcuno ha scritto libri e sussidi per ragazzi utilizzando parole e immagini tipiche dei social. Una scelta animata certo da buone intenzioni, purtroppo obiettivamente ingenua, sicuramente fallimentare.

Fedele al principio dell’incarnazione, DNA del cristianesimo, la Chiesa può continuare ad annunciare il Vangelo e a trasmettere la fede alle generazioni native digitali, solo se abita fino in fondo questo ambiente con coraggio e saggezza. Il passaggio non è banale e chiede alle comunità cristiane, in modo particolare a genitori, catechisti, educatori e responsabili della comunità, una seria riflessione. Seguono qui sei punti che articolano il seminario che l’Istituto Giovanni Paolo II propone il prossimo semestre, intitolato: Un’educazione digitale? sfide e prospettive per le famiglie e la pastorale.

Da subito abbiamo imparato a definire internet come una rete, dove i contenuti e i soggetti in campo si relazionano più o meno alla pari. Sappiamo che non è vero, ma il passaggio culturale verso forme di relazione alla pari e verso metodi di costruzione delle opinioni frutto di un dialogo e di un confronto è ormai compiuto. La comunità cristiana non può più pensare di abitare questo mondo così come faceva in quello passato, costruendo cattedrali nel bel mezzo delle città. Siamo un soggetto tra i molti, chiamati a entrare in dialogo, ad ascoltare e a parlare, senza poter accampare autorità alcuna, costruendo giorno per giorno un’autorevolezza che nessuno ci riconosce a priori. Qualunque comunicazione monodirezionale (io ti spiego, tu ascolti e nel caso chiedi spiegazioni) è rifiutata.

Le relazioni riguardano i soggetti e le loro storie (come i social hanno ben compreso e esaltato fino a un narcisismo obiettivamente preoccupante). Una grazia per l’annuncio del Vangelo, dove Gesù raramente fa catechismo e spesso, invece, incontra e chiama persone. La narrazione (e non la spiegazione) diventa decisiva, la testimonianza personale (e non l’autorità) particolarmente efficace.

Nel dinamismo dei social, la comunità cristiana può annunciare con più forza la radicalità del Vangelo, proponendo ed educando a relazioni interpersonali secondo la logica della fraternità, che non banalizza cuoricini e apprezzamenti, che rifugge con forza ogni parola carica di odio.

La sospensione della vita comunitaria durante il lockdown e il trasferimento sul digitale di qualunque attività pastorale ha evidenziato come in questo ambiente sia possibile un coinvolgimento e un protagonismo di soggetti diversi e, in alcuni casi, anche nuovi. Anzitutto le famiglie, da sempre soggetto dichiarato in crisi ma che in realtà ha retto eroicamente l’urto della pandemia, sia dal lato pratico, sia nella obbligata narrazione di senso che i tragici fatti imponevano. E poi non pochi e sorprendenti soggetti che hanno dato vita a occasioni e momenti di riflessione, preghiera, semplice incontro virtuale, anche facilitati dal non dover passare più dai pochi detentori delle chiavi della parrocchia o dai monocratici gestori dell’agenda comunitaria.

Abitare un ambiente, soprattutto se nuovo, chiede conoscenza e prudenza, saggezza e discernimento. Le religioni possono svolgere un ruolo di custodia dell’umano in questa transizione. Le agenzie educative, Chiesa compresa, sono certamente in prima linea nell’aiutare nativi e migranti digitali a vivere in modo umano questo mondo. Le famiglie, prima preoccupate di cosa potevano vedere i loro ragazzi sul web e ora di cosa possono fare vedere, non possono certamente essere lasciate sole. Anche la riscrittura in digitale della vita cristiana chiede qualche avvertenza in più: ancora una volta il lockdown ha mostrato da un lato come la vita comunitaria non possa essere risolta online (è la rivincita dell’insuperabile fisicità dei corpi che l’incarnazione impone) e dall’altro che non tutte le trasposizioni sono subito efficaci e rispettose: le messe su Youtube, ad esempio, hanno trasformato un banchetto in uno spettacolo, spesso in un monologo clericale.

Infine, e profeticamente, la comunità cristiana è chiamata ad abitare questo ambiente non dimenticandosi mai dei più poveri. Il digital dividing segna le generazioni (cosa significa introdurre gli anziani in questo mondo?), le classi sociali (la tecnologia per molti è ancora costosa), i livelli culturali. Anche nella rete lavoriamo perché neppure uno rimanga indietro.

da Avvenire di domenica 19 febbraio 2023