Nella tradizione biblica Luogo della rivelazione del trascendente

di Giovanni Cesare Pagazzi 

Sonno e notte formano l’ambiente dei sogni.
Ritenere che siano sensati e spiegabili è vecchio quanto il mondo. Ne sono convinte le culture antiche. Certo, la considerazione della realtà onirica è diversificata: va dalla piena fiducia dei sovrani della Mesopotamia, al discernimento dell’età omerica; dalla formidabile stima di istituzioni politiche, sociali, religiose e sanitarie greche e romane allo studio naturalistico di Aristotele, fino al disprezzo dei filosofi cinici.
Per i cristiani dei primi secoli i sogni sono sia occasione di tentazioni, sia premonizioni e consigli. Emblematico il caso di Evagrio Pontico (345-399): era diacono e un sogno gli impone cambiare vita: interrompere la fosca relazione con la moglie di un altro. Perciò fugge da Costantinopoli, si rifugia nel deserto egiziano, dove diviene grande conoscitore delle tinte luminose e scure dell’anima. Nelle culture antiche risulta prevalente l’idea che i sogni siano pieni di senso; non lo sfogo di una soggettività capricciosa. Anzi, il pensiero antico riconosce ai sogni un carattere eminentemente “oggettivo”, nonostante siano situati nella sfera più intima della “soggettività”. Niente è più soggettivo di un sogno, eppure nulla è più “oggettivo”, poiché appare come un dato che si impone, non un prodotto dell’Io consapevole di sé. Il sogno resiste alle mani dell’intelligenza e della libertà: in esso si assiste come ad una realtà già pronta, proveniente da chissà dove. Perciò è luogo adatto alla rivelazione del trascendente o, più genericamente, della verità che si offre sempre intrecciata con l’immaginazione di un uomo concreto. Insomma: il sogno fa parte della conoscenza.
Escluderlo dal sapere significa amputare il sapere stesso, parlando di un’umanità diversa da quella reale.
Le cose cambiano con la modernità illuministica che bolla il sogno come irrazionale (naturalmente Kant sosteneva di non sognare), estromettendolo dalla conoscenza.
L’illuminata ragione diurna vede nei sogni il residuo dell’oscurità (notturna) della mente che produce mostri. È così reciso il nesso tra “soggettivo” e “oggettivo” scorto dall’antichità, riservando all’anaffettiva ragione illuministica la capacità di conoscere oggettivamente . Alla “ragione pura”, alla “ragione pratica” e perfino alla “ragione estetica” di Kant e affini manca la “ragione onirica” che, pur non essendo razionale è ragionevole assai. Si tratta infatti di una logica diversa, non analitica, ma sintetica, fatta di mescolanza di immagini, sovrapposizioni di spazi e tempi che mettono a dura prova il principio di identità e di non contraddizione; rinvii e richiami, anticipazione del dopo sul prima. Alla certezza tipica della verità, giusto vanto della ragione diurna, la ragione onirica porta in dote l’incertezza altrettanto tipica della verità. “Incertezza” dovuta al carattere non del tutto comprensibile e pianificabile della verità; troppo grande, troppo ricca, troppo complessa, perfino per le mani capaci e rapaci della splendente ragione diurna. La ragione onirica offre un senso di marcia e sollecita il movimento, senza tracciarne una traiettoria già definita, anzi mostrando al viandante un groviglio di sentieri. In tal modo esige e custodisce un tocco rischioso, creativo e sorprendente nel cuore della certezza , giustamente auspicata e pretesa da ogni concetto e da ogni decisione. Del resto, Dio si rivela ad Abramo nella precisa, indubitabile, ferma certezza di un comando: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre» (Gen 12, 1) e al contempo grazie all’incertezza di una destinazione e di un percorso né tracciato né dichiarato: «verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12, 1). Il patriarca, chiaramente , deve uscire dalla sua terra, abbandonandosi all’incertezza notturna di un senso di marcia al momento non decifrabile. Giudicando l’esperienza onirica come insensata, la ragione illuministica semplifica la verità, riducendola alla sua certezza ; come se un cuore potesse vivere solo di sistole o di diastole. Gli esiti di questa semplificazione sono sotto gli occhi di tutti.
Giuseppe, l’uomo che adotta il Figlio del Benedetto, sogna. I sogni fanno evolvere la storia della sua famiglia, orientandola a soluzione. Il racconto di Matteo precisa che si tratta dei sogni di un «giusto» (Mt 1, 19), come se la rivelazione di Dio avvenisse agevolmente nell’immaginazione notturna di chi durante il giorno vive con giustizia. È facile che i sogni notturni di un uomo siffatto s’ avvicinino agli stessi sogni di Dio.
Già l’Antico Testamento, pur vigile, è tuttavia sensibile all’umanissimo fatto di sognare e alla sua portata rivelativa. Basta pensare al patriarca Giuseppe la cui vicenda sarebbe incomprensibile prescindendo dai sogni a lui destinati e da quelli da lui interpretati. I racconti parlano con schiettezza della possibilità che Dio si riveli in sogno, ma avvisano altresì che tale eventualità non è né evidente né immediata. Solo le vicende effettive mostreranno che i sogni di Giuseppe non sono vaneggiamenti di un egocentrico. Rimane ben fermo il severo invito dei sapienti alla cautela (Sir 34, 1-2.5-6). Tuttavia, Dio ribadisce che, fatta eccezione per Mosè a cui parla direttamente, agli altri profeti egli si rivela «in sogno» (Nm 12, 6-8). Perciò se è riprovevole un approccio facilone ai sogni, è sconveniente anche la disattenzione altezzosa verso l’immaginazione notturna, come ricorda Eliu all’amico Giobbe (Gb 33, 14-16).
Sonno, notte e sogno costellano uno dei possibili ambiti della rivelazione e della fede; non tenerne conto significa parlare di un altro Dio e di un altro uomo rispetto a quelli biblici. Gran parte del libro di Daniele è occupato dalle sue visioni notturne, vale a dire da sogni. Il profeta interpreta i sogni dei grandi della terra ed è spettatore dei propri sogni, grazie ai quali Dio gli sbroglia i grovigli della storia. Non si tratta di incorporee chimere, ma di visuali aperte sulle vicende del mondo reale, ripresentate non secondo la logica analitica diurna, ma quella sintetica notturna, non illogica, ma funzionante grazie a una logica differente. È molto significativo che le Sacre Scritture non forniscano una “trascrizione” in logica diurna delle visioni notturne di Daniele e degli altri apocalittici (Apocalisse compresa), ma le mantenga in tutta la loro complessità disorientante. Ridurre le visioni notturne apocalittiche a materiale provvisorio e rozzo da “tradurre” in logica diurna significa non comprendere la portata di tale immaginazione, dalla Bibbia ritenuta indispensabile per intuire il senso della storia, non tutto chiaro e distinto. Insomma: anche la permanente incomprensione è un aspetto della Rivelazione!
È un tratto decisivo di Dio e della sua creatura prediletta!
Non per nulla l’apostolo Pietro, riprendendo la profezia di Gioele (Gl 3, 1), include l’intelligenza dei sogni, nell’effusione dello Spirito Santo sulla Chiesa di Gerusalemme, il giorno di Pentecoste (At 2, 14-21). Gli Atti degli Apostoli mostreranno tale intelligenza onirica all’opera nella vita di Paolo: in sogno gli vien detto di rivolgersi al mondo pagano (At 16, 9-10), di rimanere a Corinto (At 18, 9-11), di andare a Roma (At 23, 11).
L’insistenza biblica sulla manifestazione di Dio tramite sogno notturno mostra che – è quasi una bestemmia a orecchi cartesiani e kantiani d’ogni ordine e grado – la Rivelazione può avvenire anche senza la diurna piena avvertenza e deliberato consenso, senza la completa comprensione. Forse ciò avrebbe molto da dire sull’uomo e sulla Grazia.