Tutto suo padre

di Giovanni Cesare Pagazzi

Non è così facile dormire quando scopri che, poco prima delle nozze, la tua fidanzata ti ha tradito. L’anima è demolita dalla delusione, abbattuta da rimpianti e rimorsi, smarrita nel presente, confusa dal futuro, nervosa al pensiero di tutto, anche di quanto dirà la gente. L’inizio del vangelo di Matteo, e di tutti i quattro vangeli, descrive un uomo in questo stato. Certo, il lettore è subito avvertito che Maria è rimasta fedele al suo Giuseppe: la gravidanza è «opera dello Spirito Santo» (Matteo, 1, 18). Ma il diretto interessato non lo sa. Decide di non diffamare la ragazza (chissà quanto le voleva bene!), escogitando una soluzione impraticabile, perfino ridicola: interrompere “in segreto” il percorso nuziale. Possibile il riserbo in un paese di qualche centinaio d’abitanti, soprattutto trattandosi d’una “faccenda d’amore”? Ciò nonostante, Giuseppe dorme. Non è scalfito dall’insonnia, dall’inquietante tormento che allontana il riposo. Durante il sonno, gli appare un angelo che lo rassicura circa Maria e suo figlio (Matteo, 1, 20-23). Giustamente attratti dall’importanza della rivelazione angelica, si rischia di dimenticarne il contesto: il sonno. La visione non sarebbe avvenuta se il fidanzato di Maria non avesse dormito, e così profondamente da sognare. Nel giro di pochissime pagine, ben quattro volte si scrive di Giuseppe visitato in sogno da un angelo, raggiunto da parole provenienti da Dio: prima del matrimonio e dell’adozione di Gesù (Matteo, 1 ,20-23), in previsione della sentenza di morte decretata da Erode contro il bambino (Matteo, 2, 13), al termine dell’esilio forzato in Egitto (Matteo, 2, 19-20) e circa la destinazione della famigliola in Galilea, anziché in Giudea (Matteo, 2, 22). Una vita complicata e piena di imprevisti, eppure Giuseppe non perde il sonno. Il vangelo di Matteo mette in rilievo sia il sonno del custode del Figlio di Dio, il «giusto» israelita (Matteo, 1, 19), sia quello dei pagani: i magi sono avvertiti in sogno di evitare Erode, tornando al loro paese alla larga da Gerusalemme (Matteo, 2, 12); la moglie di Pilato manda a dire al marito di non occuparsi di Gesù, poiché nel sonno era stata molto turbata da sogni che riguardavano quel «giusto» (Matteo, 27, 19). Insomma: il primo evangelista, all’inizio e al termine del proprio racconto, caratterizza alcuni personaggi chiave attraverso il sonno. Anzi, proprio dormendo, tali personaggi, ebrei e pagani, ricevono una rivelazione che, in un modo o nell’altro, riguarda la vicenda di Cristo. Ma, dicevo, è facile concentrarsi sull’importanza del messaggio divino, schivando il credito che l’evangelista riconosce al sonno, specialmente quello di Giuseppe, conservato fin nei momenti critici della vita.

Un bambino si abbandona al sonno quando è sicuro di non essere abbandonato e solo a patto che gli risulti affidabile la promessa del ritorno del mattino e, con esso, della mamma, del papà, dei giocattoli e della casa. Sentendo i genitori vicini al suo lettino (esattamente come il morente desidera avere al capezzale gli affetti più cari), il bimbo “si lascia andare”, immaginando che il papà e la mamma resteranno con lui, anche se non visti, durante tutta la durata della notte. Gli è possibile dormire solo grazie alla certezza che veglieranno su di lui. Il suo sonno risulta dalla veglia di qualcun altro che gli prepara il domani. Questo vale anche per noi adulti: ci abbandoniamo al sonno nella misura in cui non ci sentiamo abbandonati. Giuseppe ne è il prototipo.

Più avanti, Matteo riporta un’espressione di Gesù circa il proprio sonno: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Matteo, 8, 20). In breve: gli animali del cielo e della terra avrebbero dove dormire al sicuro, mentre il Figlio dell’uomo sarebbe privo di una stanza dove stendersi e finanche di un cuscino dove poggiare la testa nel sonno. Troppo facile attribuire alle parole tonalità esclusivamente ascetiche: la povertà di Gesù sarebbe così radicale da non prevedere nemmeno quanto, stando al Salmo 104, il Creatore garantisce anche agli animali: un luogo di riposo. Eppure l’immediato seguito della narrazione, con fine ironia, descrive il Signore profondamente addormentato in una barca sconvolta dalle onde, durante una formidabile tempesta sul lago di Tiberiade (Matteo, 8, 23-27). Urla degli apostoli, vento forte, scossoni alla barca, «ma egli dormiva» (Matteo, 8, 24). Non c’è che dire: «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo», eppure è in grado di riposare tranquillo nel bel mezzo di una situazione disperata, mortale perfino agli occhi esperti di chi ogni giorno naviga sul lago: «Siamo perduti!». Non lo svegliano le onde, ma i discepoli, tanto dormiva bene. Il racconto conferisce alle parole di Cristo circa nidi e tane un tocco mozzafiato: egli non possiede né stanza né cuscino non per difetto, ma per eccesso. Cioè: non ha quanto generalmente ritenuto indispensabile al riposo non perché ne sia privo, ma perché ne ha in abbondanza: può dormire comunque, perfino in una barca che sta affondando; e dovunque, addirittura a fianco della morte. Per Gesù ogni luogo del mondo è favorevole al sonno. Trascurando questo aspetto distintivo dello stile del Signore si rischia di riflettere sul “Salvatore del mondo” senza considerare “il mondo del Salvatore”, cioè il modo con cui il Salvatore ha percepito il mondo; eppure anche questo fa parte del suo mistero e della sua opera salvifica.

Difficile non riconoscere il legame narrativo annodato da Matteo tra il comportamento di Giuseppe e questo aspetto del Nazareno. Par proprio che il Figlio di Dio nella carne sia tutto suo padre putativo, appropriandosi di un tratto caratteristico dello sposo di Maria, come fa un bambino ammirando il suo papà. Come Giuseppe riposa bene perfino in momenti drammatici e angoscianti, così il suo Figlio adottato. Nello stile del Figlio di Dio c’è qualcosa di Giuseppe, eccome! Anche per questo è vera carne, vero corpo! A questo accenna Papa Francesco nella sua Patris corde (vedi n. 4, in fine). Purtroppo la quasi totalità della teologia è lenta a cogliere la portata di dettagli come questo. La cosa però non è sfuggita all’occhio lungo di alcuni maestri. Ricordo solamente un discorso audace di Bernardino da Siena che segnala il debito e la gratitudine manifestati dal Cristo glorioso al suo custode terreno: «Certamente Cristo non gli ha negato in cielo quella familiarità, quella riverenza e quell’altissima dignità che gli ha mostrato mentre viveva fra gli uomini, come figlio a suo padre, ma anzi l’ha portata al massimo della perfezione» (Sermone intorno a San Giuseppe sposo della B. V. Maria). Il Primogenito dei morti, l’alfa e l’omega, il sovrano dei re della terra «riverisce» Giuseppe, lo ammira, grato come un bambino, consapevole di quanto debba al suo papà. Se il Figlio onora Giuseppe anche in paradiso, anche lì è vera carne, vero corpo, riconoscendo come definitivi l’affetto, la cura, l’attenzione che sulla terra lo hanno custodito e fatto crescere. E questo è già un validissimo motivo per continuare a sperare.