Longevità di massa, ma in quale società? L’analisi di Paglia

di Pierangelo Sequeri

Personalmente ho dei desideri per «la vita del mondo che verrà», di cui parla il credo cristiano. Mi emoziona l’idea di percepire Dio all’opera nella creazione dei mondi, nel dono delle vite, nel riscatto degli avvilimenti, nel risarcimento delle ingiustizie. E come maturano all’infinito i germogli delle vite appena iniziate. Certo è vero che con la morte siamo subito al cospetto di Dio: e che la nostra posizione, nella sua vita, si definisce una volta per tutte. Ma è pur sempre la posizione di un vivente, non di un sasso. La vita che si è accesa qui, per ognuno di noi, è un’iniziazione: non c’è dubbio. E la vita eterna promessa non è semplicemente una faccenda di durata interminabile. La vita vive. La vita è fatta per vivere. La vita è fatta per allargarsi, espandersi, arricchirsi. I bambini avranno la loro maturazione: crescerà la loro capacità di godere l’ospitalità di Dio. Perché per Dio nessun bambino viene al mondo per niente. E nessun vecchietto si congeda da questa vita per finire in un ospizio celeste, dove si deve accontentare di vivere di quello che ha vissuto, senza problemi di dolori e di autosufficienza. L’attesa della risurrezione sarà creativa, evidentemente: non si tratta semplicemente di una trasformazione chimica o fisica. Come fa Dio a trarre un tesoro di vita, dal poco che gli offriamo? Mi emoziona pensare di partecipare a questo spettacolo. E di esserne coinvolto, perché il mondo di Dio non vive senza di me e non si forma solo per me. E lo struggimento felice di vedere Dio all’opera del riscatto e della purificazione degli avvilimenti? Per il momento, questa è la mia attesa e la mia emozione più grande. Nella mia scala personale (personale, dico) l’abisso della perdutezza umana è la l’avvilimento dell’essere umano inflitto per pura prepotenza: senza neppure uno scopo, che non sia il godimento della mortificazione altrui. Nel nostro mondo, qui ed ora, l’avvilimento è diventato pretesto di grandi grida e di zero riscatto. Grida manzoniane. Inutile girarci intorno: siamo più generosi con i persecutori, che con le vittime. La ragion di Stato, le condizioni famigliari, l’educazione mancata, la deprivazione subita. Tutto vero. Ma la prevaricazione non dovrebbe trarne neppure un grammo di giustificazione. La cattiveria rimane cattiveria. Eppure. Difficile, sempre, per le vittime, farsi largo attraverso l’onda commovente della compassione occasionale, per vedersi riaprire la strada di una vita in cui si portano gli uni i pesi degli altri. Desidero con tutte le mie forze vedere come fa Dio a scavare nella cattiveria del cuore umano, per trarne la purificazione necessaria; e accogliere il dolore dimenticato, per restituirgli l’onore perso: e non soltanto una nuova vita. La prevaricazione è, poco o tanto che sia, una postura che si accompagna alla viltà. Nella sua versione riciclata, ad uso di una soglia praticabile di sostenibilità sociale, diventa una funzione della competizione, del successo, della riuscita. Come farà Dio a ristabilire la differenza, separando infallibilmente una giuntura che per noi sembra quasi impossibile persino vedere? So che lo farà anche con me, naturalmente. Ma mi riempie di gioia – non me la spiego neppure – questo fatto: se penso che la farà con tutti e tutte. Soprattutto con i milioni che hanno patito l’orribile mescolanza dell’autorealizzazione e della cattiveria più di me. I bambini e i vecchi sono, nelle età della vita, i più esposti alla prevaricazione I primi, perché gliela puoi persino instillare dentro, in molti modi. E perché ne sono vittime inconsapevoli (inconsapevoli?), come si dice, in molti modi: quando gli adulti si combattono, per i bambini non c’è scampo, perché gli adulti in grado di disporre di sé (‘la vita è mia’) non ci pensano ai bambini (che comprendo quelli degli altri, non solo i pro- pri). I vecchi, rimangono esposti alla prevaricazione, perché quella che ricevono non gliela puoi più togliere. E il loro sconforto – o la loro disperazione – si ritorcono contro di loro. Diventano il segno di una vita non più degna di essere vissuta: e prende forma l’argomento molto ragionevole che sarebbe meglio chiuderla da sé. Il bel libro di monsignor Vincenzo Paglia L’età da inventare. La vecchiaia fra memoria ed eternità (Piemme, pagine 240, euro 17,50) rimescola le carte della vecchiaia, prendendo spunto dalla odierna evidenza della longevità come fenomeno di massa. La vecchiaia è una dimensione antropologica della vita collettiva, non più semplicemente un’appendice famigliare della marginalità sociale. Il paradosso messo a fuoco dal libro è appunto questo: come mai la condizione antropologica della vecchiaia, che proprio ora appare con tutta evidenza come un’età normale della vita, sempre più è consegnata alla clinica della sopravvivenza e sempre meno accolta nell’etica della convivenza? Una società che si vuole giusta, ordinata, umana, per quale motivo si ostina – anzi, si ossessiona – nello sforzo di farsi rappresentare a pieno titolo soltanto degli individui dinamici, produttivi competitivi (e maschi) dell’adulto fai-da-te dell’età- di-mezzo: che rimane-sempregiovane (anche se, nella realtà, i giovani fanno sempre più fatica a ‘occupare’ la posizione; ed essa si accorcia anche per gli adulti, che in un attimo diventano ‘esuberi’)? In altri termini, le età della vita, che proprio nei loro legami umani restituiscono intera, per tutti, l’umanità dell’umano vivere, vanno ‘fuori asse’ nella società odierna. E qui, ‘fuori di asse’ significa anche ‘fuori di testa’. Non è solo questione di perdita delle forze: diventa una questione di perdita della forma umana: che, nell’isolamento delle età della vita, finisce per diventare irriconoscibile (e fatalmente ingiusta, per tutte). L’umano che è comune è indivisibile: l’umanità del suo senso condiviso vive fino a che le età della vita mantengono legami umani e arricchiscono di umanità la sua testimonianza. Non deve sorprendere, dunque, l’invito di Vincenzo Paglia, a intraprendere il compito di ‘inventare’ la dimensione antropologica della vecchiaia, quale componente ‘vitale’ dell’intera comunità umana. Una questione di giustizia, di riconoscenza, di responsabilità, di amore. Certamente. Ma anche un pungolo a porre rimedio ad una distorta comprensione della vita come semplice durata che si consuma. Incominciata dal niente, e destinata al niente. La vita è iniziazione ad una infinità di beni che non si consumano affatto: sono beni di iniziazione che non siamo in grado di trattenere con le nostre forze: ma che dobbiamo difendere con tutte le nostre forze. Nella vita umana non ci sono esuberi: né rami secchi che è meglio tagliare di nostra iniziativa, per migliorare la produzione e il profitto. Possiamo e dobbiamo invece restituire agli anziani l’onore della testimonianza della dignità della vita. Questa dignità è violata quando alziamo la mano su di essa, non quando essa stessa non ha più la forza di sollevare la mano. E molto gli anziani, restituiti a questo onore – quello di insostituibile rappresentanza dell’umano vissuto fino in fondo – possono portare alla lieta fiducia dei bambini e dei giovani che sono disposti a non abitare la terra invano. Perché, appunto, la cosa non finisce qui: e il bello deve venire.