La Chiesa sulla frontiera

di Antonio Spadaro e Simone Sereni

Il cardinale Mario Grech è il nuovo Segretario generale del Sinodo dei Vescovi. Maltese, nato nel 1957, è stato nominato vescovo di Gozo nel 2005 da Benedetto XVI. Dal 2013 al 2016 è stato presidente della Conferenza episcopale di Malta. Il 2 ottobre 2019 papa Francesco lo aveva già nominato pro-segretario generale del Sinodo dei Vescovi, e per questo ha partecipato al Sinodo per l’Amazzonia. L’esperienza pastorale di mons. Grech è ampia. La sua affabilità e capacità di ascolto delle domande ci hanno spinti a realizzare una conversazione libera.

A partire dalla condizione della Chiesa nel tempo della pandemia – una ecclesiologia nella condizione di lockdown – e alle relative sfide importanti per l’oggi, si è passati naturalmente a riflessioni sui sacramenti, sull’evangelizzazione, sul significato della fratellanza umana, e quindi della sinodalità, che mons. Grech vede a essa legata. Una sezione dell’intervista è dedicata, in particolare, alla famiglia «piccola Chiesa domestica»: è anche questo il motivo per il quale la conversazione è stata realizzata insieme da un sacerdote e da un laico che è marito e padre. 

Mons. Grech, il tempo della pandemia che stiamo ancora attraversando ha costretto il mondo a fermarsi. Le case sono diventate luogo di rifugio dal contagio, le strade si sono svuotate. La Chiesa ha partecipato di questo clima di sospensione. La celebrazione pubblica della liturgia non è stata possibile. Quali sono state le sue considerazioni da vescovo, da pastore?

Se cogliamo questa come una opportunità, essa può diventare un momento di rinnovamento. La pandemia ha portato alla luce una certa ignoranza religiosa, una povertà spirituale. Alcuni hanno insistito sulla libertà di culto, però hanno parlato poco di libertà nel culto. Abbiamo dimenticato la ricchezza e la varietà delle esperienze che ci aiutano a contemplare il volto di Cristo. Qualcuno ha persino detto che la vita della Chiesa è stata interrotta! E questo è davvero incredibile. Nella situazione che impediva la celebrazione dei sacramenti non abbiamo colto che c’erano altri modi attraverso i quali abbiamo potuto fare esperienza di Dio.

Nel Vangelo secondo Giovanni, Gesù dice alla samaritana: «Viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. […] Viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano» (Gv 4,21-23). La fedeltà del discepolo a Gesù non può essere compromessa dalla temporanea mancanza della liturgia e dei sacramenti. Il fatto che molti sacerdoti e laici siano andati in crisi perché di colpo ci siamo trovati nella situazione di non poter celebrare l’Eucaristia coram populo è di per sé molto significativo.

Durante la pandemia è emerso un certo clericalismo, anche via social. Abbiamo assistito a un grado di esibizionismo e pietismo che sa più di magia che di espressione di fede matura.Trovo curioso che molti si siano lamentati del fatto di non poter ricevere la comunione e celebrare i funerali in chiesa, ma che non altrettanti si siano preoccupati di come riconciliarsi con Dio e con il prossimo, di come ascoltare e celebrare la Parola di Dio e di come vivere il servizio.

Lo spezzare il pane anche in casa, durante il «lockdown», ha acceso finalmente la luce sulla vita eucaristica ed ecclesiale che si sperimenta fisiologicamente nella quotidianità di tante famiglie: si può dire che la casa sia tornata a essere Chiesa, anche in senso liturgico?

A me è parso chiarissimo. E chi, durante questo periodo nel quale la famiglia non ha avuto l’opportunità di partecipare all’Eucaristia, non ha colto l’occasione per aiutare le famiglie a sviluppare il loro potenziale proprio, ha perso un’occasione d’oro. D’altra parte, ci sono state diverse famiglie che in questo tempo di restrizioni si sono rivelate, di propria iniziativa, «creative nell’amore»: dal modo in cui i genitori hanno accompagnato i più piccoli alle forme di home-schooling, dall’aiuto offerto agli anziani e contro la solitudine alla creazione di spazi per la preghiera fino alla disponibilità verso i più poveri. Che la grazia del Signore moltiplichi questi esempi belli e faccia riscoprire la bellezza della vocazione e i carismi nascosti all’interno di tutte le famiglie.

Prima parlava di una «nuova ecclesiologia» che emerge dall’esperienza forzata dal «lockdown». Questa riscoperta della casa cosa suggerisce?

Che qui sta il futuro della Chiesa: nel riabilitare la Chiesa domestica e lasciarle più spazio. Una Chiesa-famiglia costituita da un numero di famiglie-Chiesa. Questo è il presupposto valido della nuova evangelizzazione, della quale sentiamo così tanto la necessità tra di noi. Dobbiamo vivere la Chiesa all’interno delle nostre famiglie. Non c’è confronto fra la Chiesa istituzione e la Chiesa domestica. La Chiesa grande comunità è costituita da piccole Chiese che si riuniscono nelle case. Se la Chiesa domestica viene a mancare, la Chiesa non può sussistere. Se non c’è Chiesa domestica, la Chiesa non ha futuro! La Chiesa domestica è la chiave che ci apre orizzonti di speranza!

Nel libro degli Atti degli Apostoli abbiamo una descrizione dettagliata della Chiesa di famiglia, domus ecclesiae: «Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Nell’Antico Testamento, la casa di famiglia era il luogo dove Dio si rivelava e dove si celebrava la Pasqua ebraica, la più solenne celebrazione della fede ebraica. Nel Nuovo Testamento, l’Incarnazione è avvenuta in una casa, il Magnificat e il Benedictus sono stati cantati in un casa, la prima Eucaristia si è svolta in una casa, così come l’invio dello Spirito Santo nella Pentecoste. Nei primi due secoli la Chiesa si è sempre riunita nella casa di famiglia.

Nella vulgata recente si usa spesso l’espressione «piccola Chiesa domestica», con una nota riduzionista, forse involontaria… Questa narrativa può aver contribuito a depotenziare la dimensione ecclesiale della casa e della famiglia, così facilmente comprensibile a tutti, e che oggi ci appare così evidente?

Siamo forse ancora in questo stato, a causa del clericalismo, che è una delle perversioni della vita presbiterale e della Chiesa, nonostante il Concilio Vaticano II abbia recuperato la nozione di famiglia come «Chiesa domestica»[5] e abbia sviluppato l’insegnamento sul sacerdozio comune[6]. Ultimamente ho letto, in un articolo sulla famiglia, questa puntuale affermazione: la teologia e il valore della pastorale in famiglia come «Chiesa domestica» hanno avuto una svolta negativa nel secolo IV, quando avvenne la «sacralizzazione» dei presbiteri e dei vescovi, a danno del sacerdozio comune del battesimo, che cominciava a perdere il suo valore. Più è stata attuata l’«istituzionalizzazione» della Chiesa, più si sono logorate la natura e il carisma della famiglia in quanto Chiesa domestica.

Non è la famiglia a essere sussidiaria della Chiesa, ma è la Chiesa a dover essere sussidiaria della famiglia. In quanto la famiglia è struttura basilare e permanente della Chiesa, a essa, domus ecclesiae, dovrebbe essere restituita una dimensione sacrale e cultuale. Sant’Agostino e san Giovanni Crisostomo insegnano, sulla scia del giudaismo, che la famiglia dovrebbe essere un ambiente dove la fede possa essere celebrata, meditata e vissuta. È dovere della comunità parrocchiale aiutare la famiglia a essere scuola di catechesi e aula liturgica dove possa essere spezzato il pane sul tavolo della cucina.

Chi sono i ministri di questa «Chiesa-famiglia»?

Per san Paolo VI, il sacerdozio comune viene vissuto in modo eminente dagli sposi muniti dalla grazia del sacramento del matrimonio[7]. Anche i genitori, quindi, in virtù del loro sacramento, sono i «ministri del culto», che durante la liturgia domestica spezzano il pane della Parola, pregano con essa, e così avviene la trasmissione della fede ai figli. Il lavoro dei catechisti è valido, ma non può sostituire il ministero della famiglia. La stessa liturgia della famiglia avvia i membri a partecipare più attivamente e consapevolmente alla liturgia della comunità parrocchiale. Tutto ciò aiuta affinché avvenga il passaggio dalla liturgia clericale a quella familiare.

Oltre allo spazio strettamente domestico, Lei crede che la specificità di questo «ministero» della famiglia, degli sposi e del matrimonio possa e debba avere anche un rilievo, profetico e missionario, per tutta la Chiesa come pure nel mondo? In quali forme, per esempio?

Nonostante da decenni la Chiesa ribadisca che la famiglia è soggetto dell’azione pastorale, temo che per molti versi questo ormai sia diventato parte della retorica della pastorale familiare. Molti tuttora non sono convinti del carisma evangelizzatore della famiglia, non credono che la famiglia abbia una «creatività missionaria». C’è molto da scoprire e integrare. Ho avuto personalmente un’esperienza molto stimolante nella mia diocesi con la partecipazione delle coppie e delle famiglie alla pastorale familiare. Alcune coppie si sono occupate della preparazione al matrimonio; altre hanno accompagnato i novelli sposi nei primi cinque anni di nozze.

Arricchiti dall’esperienza nelle proprie famiglie, i coniugi non soltanto sono in grado di condividere testimonianze di fede incarnata nelle vita familiare quotidiana, ma riescono anche a trovare un nuovo linguaggio teologico-catechetico per la proclamazione del Vangelo della famiglia. Sull’esempio della «Chiesa in uscita», la «Chiesa domestica» deve orientarsi a uscire di casa; perciò va anche messa nelle condizioni di assumersi le proprie responsabilità come soggetto sociale e politico. Come ha sottolineato papa Francesco, Dio «ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sé stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere “domestico” il mondo»[8].

La famiglia «è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene»[9]. Una sintesi di tutto questo si trova nel Documento finale del Sinodo dei Vescovi sulla famiglia, dove i padri sinodali scrivono: «La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale»[10].

(leggi tutta l’intervista  sul sito di Civiltà Cattolica)