La Santa Famiglia, famiglia vera perché sempre in movimento

di Giovanni Cesare Pagazzi

Famiglia movimentata, la Santa Famiglia. Basta chiedere a Giuseppe e a Maria cosa passarono poco prima delle nozze. Famiglia in movimento. Così è presentata nei Vangeli di Matteo e Luca. Infatti, stando al primo, dopo la nascita di Gesù, i tre lasciano Betlemme, nel sud d’Israele, per andare in Egitto. Da lì ritornano in Terra Santa, ma al nord, a Nazareth. Per Luca, la coppia si diresse da Nazareth a Betlemme, poco prima della nascita di Gesù, rientrando a casa dopo la sua presentazione al tempio di Gerusalemme. La distanza tra Nazareth e la città santa era di circa 150 chilometri; per coprirla, una carovana impiegava almeno una decina di giorni. Lo stesso evangelista scrive che i tre si recavano ogni anno a Gerusalemme, in occasione della Pasqua. Ciò significa che, tra andata e ritorno, la famiglia era in viaggio pressappoco un mese all’anno. Quando Gesù ebbe dodici anni, il percorso della coppia fu più lungo: due giorni aggiuntivi di cammino e tre giorni di ricerca del ragazzo per le strade di Gerusalemme. L’episodio evidenzia l’intreccio tra il movimento e le emozioni: le strade percorse dalla coppia sulle tracce di Gesù e l’«angoscia » (Lc 2,48) a motivo della sua scomparsa. Non c’è che dire: venendo al mondo, il Salvatore mette in movimento chi gli sta vicino e ne smuove l’animo. Difficile stare fermi accanto a uno così.

L’intreccio tra il movimento del corpo e i moti dell’anima è custodito dal linguaggio che frequentemente esprime la vita affettiva grazie al lessico del movimento: le e-mozioni, la commozione, l’at-trazione, la se-duzione, il trasporto affettivo, le pulsioni, la re- pulsione (cioè qualcosa che “spinge”), le più o meno consapevoli ri-mozioni di ricordi dolorosi. Altre situazioni emotive sono rese attraverso il movimento di “premere”, con cui si esercita una “pressione”: essere im-pressionato, sotto pressione, de-presso. Non solo l’aspetto passionale/ passivo dell’anima, ma anche quello libero e attivo è indicato grazie a movimenti: ci si decide per un motivo, si dà una motivazione che pro-muove l’azione. “Cosa ti spinge ad agire così?”, “Per quale motivo continui a vivere?”, “Qual è il movente?”. Insomma: nessuno muoverebbe un dito senza un motivo, cioè “qualcosa che muove”.

Azioni come “at-tendere”, “prestare at-tenzione”, “in-tendere” e perfino l’ambivalente “pretendere”, non si verificherebbero senza il movimento del “tendere”. E che dire del gioioso divertirsi e dell’impegnativo convertirsi, esperienze segnate dal verbo vertere, cioè “girare”, “voltare”? Così pure lo stile globale e l’atteggiamento morale di un individuo sono indicati dalla sua postura, dal portamento e dal com-portamento, vale a dire la qualità di portare-sé-con gli altri e con le cose. Chi “sa stare in piedi sulle proprie gambe”, o è “piegato dalla sofferenza”, ovvero “curvo davanti ai potenti”, oppure “con la schiena dritta”. Chi è “teso”, o “disteso”.

Anche esperienze prettamente intellettuali sono rese in termini di moto: seguire un corso universitario, intraprendere un per-corso di studio, come fosse una corsa. La serissima parola “metodo” significa “durante il cammino” o “dopo il cammino”. Ogni forma di progresso, manco a dirlo, significa “andare avanti”, e qualsiasi tipo di progetto è “gettare avanti”. Che dire poi della difficile arte di “educare”, che indica smuovere qualcuno fino a “tirarlo fuori”?

Ciò che motiva e mette in movimento è sempre una differenza di potenziale dell’anima, lo squilibrio provocato da qualcosa che, mancando, attrae. Senza mancanza e vuoto, non si darebbe nessun movimento. Esattamente come due vasi comunicanti: per creare un flusso, una corrente, un vaso deve essere vuoto, o meno pieno dell’altro. Un sistema perfettamente in equilibrio, o saturo, è stabile, ma, appunto, immobile. La famiglia di Nazareth si reca in Egitto perché le mancano sicurezza e pace; si muove ogni anno verso il tempio di Gerusalemme perché sente la mancanza di Dio; Giuseppe e Maria setacciano la Città Santa perché hanno perduto il Figlio.

Spesso (anche nella Chiesa) si presenta come ideale del rapporto di coppia e della relazione tra genitori e figli un modello troppo “equilibrato”, “omeostatico”, “saturo”. In tale situazione “ci si trova sempre”; non esistendo mancanze e vuoti, è inibito ogni movimento (anche angoscioso) come fosse sintomo di malfunzionamento. Così facendo, non si comprende che nelle relazioni ogni tanto ci si trova, quasi sempre ci si cerca. Una famiglia reale (come reale è quella di Nazareth) vive la Domenica dell’incontro stabile e pacificato, ma anche i sei giorni del movimento dovuto alla mancanza, la quale parla la lingua dei bisogni, dei desideri, degli equivoci, delle incomprensioni, dei distanziamenti, degli umori non corrispondenti…

L’ideale omeostatico è ultimamente sostenuto da una società e da un modello di mercato che considerano fallimentare, o perfino colpevole, il senso stesso della mancanza; perciò fanno in modo che si ottenga quanto è desiderato 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. Riempiendo immediatamente i vuoti, si spengono anche i desideri… di tutti i tipi. Il desiderio, infatti, è il movimento dovuto a una mancanza. L’origine stessa del vocabolo lo dice: “ de-sidus” può significare “proveniente dal cielo”, ma anche “in assenza del cielo”, “in mancanza delle stelle”, indicando la situazione degli antichi marinai del Mediterraneo, costretti a cercare punti di riferimento, durante la navigazione notturna, sotto un cielo coperto, e perciò privo di stelle. La Santa Famiglia non inibisce le famiglie di questo tempo con la sua statica, irraggiungibile perfezione (se irraggiungibile, non invita a muoversi per raggiungerla…). Al contrario, mossa da mancanze felici e tremende, incoraggia a considerare i vuoti non come malattie dei legami, ma quali segnali della loro perfetta fisiologia che scuote, smuove alla ricerca e fa trovare.

(Anticipazione pubblicata su “Avvenire” di domenica 5 giugno del numero di giugno di Luoghi dell’Infinito, dedicato al decimo Incontro mondiale delle Famiglie.