Genitori, regalate fiducia

di Francesco Stoppa

Oggi la parola dordine tra le generazioni è ‘non facciamoci del male’. Ma così si toglie ogni responsabilità ai giovani, rendendoli alienati e infantilizzati L’ansia, lo stress e la presenza ossessiva che sembra contrassegnare l’impegno educativo di madri e padri rischia di dissolvere la vitalità di bambini e adolescenti, condannandoli alla condizione di ‘ figli per sempre’ C’è qualcosa di cui in genere non teniamo conto quando parliamo della famiglia: il suo essere prima di tutto un’istituzione, uno snodo civile, e quindi tutt’ altro che autoreferenziale, la cui importanza non risiede solo nell’opera di umanizzazione dell’individuo. Essa ha il compito, infatti, di finalizzare la propria azione alla graduale emancipazione del figlio in vista di una sua responsabilizzazione a livello sociale. La scarsa attenzione posta sul carattere civile della famiglia non si spiega per il solo fatto che da una certa epoca in poi il suo connotato normativo ha ceduto il posto a quello affettivo. In realtà essa soffre dell’insufficiente considerazione di cui ‘godono’ altre istituzioni, come la Scuola o i presidi sanitari, agli occhi di un establishment che le utilizza solo come dei dispositi- vi atti all’erogazioni di determinate prestazioni. La dimensione funzionale ha preso il sopravvento su quella valoriale e a risentirne sono la funzione formativa e critica, nonché il portato innovativo delle istituzioni. La necessità di perpetuare gli attuali assetti di potere, accompagnata all’ossessione contabile e al culto del protocollo, rischiano di soffocare nella culla la spinta istituente che le dovrebbe tenere al passo con la vita reale. La famiglia stessa è ostaggio dell’impostazione individualistica oggi imperante, e pensando alle sue potenziali patologie ciò che balza agli occhi è la difficoltà di concepirsi come una realtà votata a un compito che la trascende. Come ogni istituzione, la famiglia è un centro di accoglienza della vita con cui deve saper stare al passo: deve in sostanza custodire l’antico, l’eredità ricevuta, lasciandosi attraversare dal nuovo, accettando di trasformarsi e produrre a propria volta dei processi trasformativi la cui prima finalità è quella di permettere al figlio di assumere l’identità di cittadino. Si tratta di un percorso segnato dall’attraversamento di un certo lutto perché durante questo cammino sarà più facile procurarsi escoriazioni e ferite piuttosto che uscirne integri o comunque senza cicatrici, e perché la cosa genererà dei tagli da entrambi le parti in causa (la famosa spada che divide i figli dai genitori: Matteo, 10, 34-36).
Pur mantenendo la sua cornice protettiva, la famiglia dovrebbe quindi essere la palestra in cui fare le prime prove di resistenza nei confronti della congenita ingratitudine e cocciutaggine della vita. Sappiamo che crescere senza ferite, senza ‘no’ o senza delusioni, ha come contrappasso il generarsi di una risposta inibitoria, di un senso di impotenza davanti alle difficoltà dell’esistenza.

E da questo punto di vista nulla si rivela più sottilmente traumatizzante di una famiglia – e più in generale di una società – ‘detraumatizzata’, preoccupata solo di soddisfare i bisogni, garantire e soprattutto giustificare. Questo ‘non facciamoci del male’, la pace preventiva che gli adulti di oggi impongono ai giovani, genera un vero e proprio dispotismo della deresponsabilizzazione: figli – e cittadini – alienati e infantilizzati, trasformati negli innocui consumatori di una società che contempla solo diritti e mai doveri di cittadinanza.
Adulti ossessivamente presenti e accudenti finiscono per tradire il loro mandato educativo, minano lo sviluppo di quella creatività che permette al soggetto di escogitare le sue tattiche per affrontare l’angoscia e il dolore che inevitabilmente accompagnano la gioia della crescita; non gli concedono il tempo e lo spazio, e soprattutto non gli trasmettono la fiducia che si rivela utile per reggere l’attesa, lo stress, la necessità della rinuncia. In questo modo l’ansia dei genitori e il loro bisogno di controllo finiscono per prendere inconsapevolmente di mira la vitalità del bambino o dell’adolescente, quel fattore che ispira modalità originali di lettura e soprattutto di riscrittura dell’esistente.
Un po’ come in quelle fiabe nelle quali i protagonisti sono vittime di un incantesimo che li isola in una bolla senza tempo, bambini e adolescenti d’oggi sembrano condannati a un eterno presente, cristallizzati nella loro immagine di figli-per-sempre da un amorevole quanto diabolico sortilegio operato dagli adulti. L’infanzia e l’adolescenza sono dunque ancora epoche della vita, transizioni, percorsi che sta a ogni soggetto interpretare e far evolvere, o sono paradisi fiscali che gli adulti assicurano ai giovani affinché essi non abbiano a pagare la tassa, il prezzo del divenire a propria volta adulti?
Questo è quanto tutti – e non solo gli psicologi o i sociologi – possiamo constatare a occhio nudo. Ma se interroghiamo il fenomeno nella sua complessità, allora ci sarebbe da chiedersi se colpevolizzare la famiglia non sia alla fine come sparare sulla croce rossa. La famiglia moderna è, alla pari delle altre istituzioni, in sofferenza, messa sotto accusa per l’eccessiva intimità delle sue relazioni interne, ma come non vedere che la società del consumo e del relativismo etico, quella società a cui essa dovrebbe fa approdare i figli, non è, agli occhi di genitori consapevoli, così rassicurante come si vorrebbe far credere? I figli dovrebbero in sostanza uscire da una realtà a un tempo normativa e affettiva per andare a prendere posto in un mondo nel quale il cinismo e l’individualismo sembrano sopravanzare le considerazioni di tipo etico, gli ideali e i valori di una certa Cultura.

Se dunque la famiglia si trova riconsegnata al proprio narcisismo intrinseco anziché essere aiutata ad attraversare i lutti e recuperare il suo compito civile, è perché si è rotto il patto con una società che non le chiede più di essere il luogo dell’iniziazione umana dei futuri cittadini, ma di produrre degli anonimi e accondiscendenti consumatori. Non si tratta dunque di sparare, ma piuttosto di sperare sulla famiglia che comunque, con tutti i cerotti che si porta addosso ed esposta com’ è alle radiazioni di una società priva di una bussola etica, dà comunque ancora segni di resistenza.

* Psicanalista e docente alla Scuola di filosofia di Trieste e al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II

da “Noi in Famiglia” di domenica 19 settembre