Quell’abbraccio sulla faglia

di Giovanni Cesare Pagazzi

Scorrendo Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente (Torino, Einaudi, 2021, pagine 200, euro 16,50) di Luigi Manconi e Vincenzo Paglia si prova una certa invidia, poiché è il testimone di un incontro nel senso pieno del termine. “Incontro” comincia con “in-” che significa “verso…”, “in direzione di…”. Allude al movimento in vista di un colloquio, una conversazione, uno scambio; insomma, qualcosa che promette amicizia. Ma nel termine freme anche “contro”, vale a dire un faccia a faccia che non esclude la figura battagliera dello “scontro”. Incontro tiene insieme intesa e scontro, indicando che non esiste accordo del tutto privo di superfici ruvide e non si dà impatto incapace di preludere a un patto. Nel libro si incontrano un arcivescovo e un sociologo che vanta un’importante esperienza politica e si definisce “pococredente”, in qualsiasi caso con una visione della vita dove la fede non è decisiva.

Si tratta di un incontro reale. Senza trucchi e perciò imprevedibile; avverso a facili accordi e sintonie ireniche. Due uomini dall’intelligenza affilata e reattiva, non disposti a risparmiare nessun colpo argomentativo. In alcuni casi le posizioni si avvicinano, in altri rimangono fieramente distanti. I luoghi dell’incontro stanno tutti sulla faglia prodotta da placche tettoniche culturali che in parte si attraggono e in parte si oppongono: sta prima l’umanità intera o il singolo soggetto? La vita si riceve o si determina? Che dire circa le relazioni familiari, le forme della sessualità, il piacere, il sorgere della vita, la sua fragilità e la sua cura, l’apparire del nuovo continente degli anziani, sempre più numerosi, sempre più longevi? Cosa significa essere genitori? Il corpo ha ancora qualcosa da dire e insegnare, o è solo la ribalta dove emozioni e volontà fanno il bello e il cattivo tempo? Come e fino a che punto accompagnare alla morte? È proprio vero che chi è inguaribile è anche incurabile? Quale forma di responsabilità ecologica? Sono tutte questioni che coinvolgono l’individuo, le famiglie, la cultura, la società, la politica, l’economia, la fede cristiana e le altre religioni.

Il libro si chiude con un discorso sulle “cose ultime”: cosa ci aspetta dopo la morte? Colpisce la comune scelta dell’arcivescovo e del pococredente di immaginare il Paradiso. Il libro è vivace, snello, piacevole, nonostante la complessità e l’urgenza degli argomenti trattati.

Non voglio privare il lettore del gusto di scoprire da sé la morfologia testuale prodotta dalla “tettonica a placche” di questo incontro. Solo mi permetto di evidenziare la diversa tonalità di spiriti dei due interlocutori. A volte sta sullo sfondo, oppure emerge netta, diventando oggetto di critica reciproca tra i due. Manconi rileva in Paglia (nel cristianesimo? Nel modo di presentarlo?) un certo impulso euforico, tendente a sorvolare il negativo, lo scuro, il disordine; una specie di mania a saturare immediatamente i vuoti di cui è colma perfino la realtà più piena (anche la fisica del XX secolo ce lo insegna). Il rischio è l’enfasi e la retorica. Il rilievo di Manconi è prezioso, poiché avverte i cristiani a non confondere la speranza che essi hanno (virtù potente e sofferta, corpo vitalissimo eppure ferito) con l’esaltazione che chiude gli occhi sugli interstizi e i grigi del reale. La speranza non si accende quando tutti i conti tornano, sempre e immediatamente, né li fa tornare tutti sempre e immediatamente. Essa divampa quando i conti non tornano. Su questo punto, l’autore della Lettera agli Ebrei è netto: al momento presente non vediamo ancora che ogni cosa sia sottomessa a Cristo (2, 8). Vale a dire: che Cristo sia il senso del mondo e di tutto è fuori discussione per il cristiano, ma ciò non significa che tutto sia già chiaro e distinto fin nel minimo dettaglio. D’altro canto, a Manconi è fatto notare che forse il suo realismo è un quadro dipinto con una tavolozza malinconica, dove l’acuto senso della perdita rischia — in maniera speculare alla tentazione euforica — di distorcere la realtà. La più volte dichiarata volontà di «autodeterminazione» come fondamento ultimo dell’agire sembra emergere da un forte senso di solitudine e separazione. Lo si coglie in un commosso passaggio circa gli ultimi momenti di vita di una persona in sofferenza estrema: «Qualunque accompagnamento, qualunque conforto, qualunque grazia umana e divina possono solo attenuare quella sofferenza, non cancellarla. Se, dunque, in quell’abisso del dolore precipito da solo, e non può essere che così, sono solo io, in ultima istanza, a dover decidere come uscirne». Sarebbe il senso della solitudine, della separazione a fondare il diritto dell’autoderminazione.

Ma solitudine e separazione non sono solo il segnale della perdita, ma anche l’emblema del guadagno. Infatti, a differenza dell’isolamento, sono il riverbero emotivo della singolarità irripetibile di ciascuno. Si prova solitudine non solo (forse nemmeno prima di tutto) perché si è disgiunti, ma perché si è pezzi unici, come la Divina Commedia, Il Cenacolo di Leonardo, Les Demoiselles d’Avignon di Picasso, la Fuga in fa maggiore di Bach e Knockin on Haeven’s door di Dylan. Questa unicità è a tutti gli effetti “patrimonio dell’umanità”, non può essere determinata solo dal singolo, appartiene a tutti e verso tutti è responsabile della propria — per certi aspetti inaccessibile — singolarità. Questo è il suo tremendo e il suo bello.

Il libro ha come titolo principale Il senso della vita. Viene in mente l’opera dell’acuto psicoterapeuta Vik-tor Frankl. Egli argomentava che la radice profonda delle malattie dell’anima sta nel sentimento di mancanza di senso e nel collasso della volontà di cercarlo. I due autori, su placche tettoniche diverse, lo stanno rintracciando. Anche per questo continuano a vivere.

(L’Osservatore Romano)