Tra Francesco e il Conclave / 1: contesti
di Vincenzo Rosito
«Che ne sarà dei processi avviati?», si chiedeva il cardinale Baldo Reina nell’omelia pronunciata durante la Messa in suffragio di papa Francesco, nel terzo giorno dei novendiali. Una delle immagini maggiormente usate da Francesco – quella dei processi da inaugurare – emerge limpida e provocatoria proprio nei giorni in cui la chiesa ringrazia per il dono della sua vita e si prepara all’elezione del suo successore.
Quello di questi giorni non è un tempo sospeso e anomalo, è invece il tempo opportuno per un attento lavoro di memoria e riflessione. Questi sono giorni in cui il ricordo dei gesti compiuti da Francesco potrebbe diventare un’occasione per riflettere insieme su ciò che nel frattempo è cambiato nelle nostre vite ovvero nelle vite delle comunità ecclesiali e civili di cui siamo parte. È questo il modo con cui il popolo di Dio non solo si prepara per l’imminente conclave, ma in qualche modo partecipa, con spirito sinodale, a un momento importante e delicato per la vita della chiesa. Mi chiedo allora come vivere sinodalmente questi giorni? Come non riempirli soltanto di un vago voyeurismo ecclesiastico che induce a sbirciare tra le grate di una stanza chiusa, a scommettere su elettori eleggibili, a ipotizzare trame e maggioranze. In altre parole, come fare di questi giorni un tempo di autentica vita ecclesiale?
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Per rispondere a tali domande credo sia necessario assumere un preciso punto di vista: Francesco non ha semplicemente compiuto alcuni gesti personali, egli ha reso possibili e praticabili i gesti di molti nella chiesa. Per onorarne la memoria, non è sufficiente stilare l’elenco delle azioni significative e rilevanti che egli ha compiuto nel corso del suo pontificato. È altresì necessario che ognuno e ognuna di noi possa dire ciò che ha imparato a fare in questi anni, nel contesto della propria chiesa o comunità. Proprio in questi giorni potrebbe essere utile non solo ricordare le cose che Francesco ha fatto, ma soprattutto ciò che di nuovo o di diverso noi tutti siamo riusciti a fare, grazie alla sua guida e ispirazione.
Mai come in questa occasione è necessario distinguere le parole d’ordine dalle parole d’uso. Le parole d’ordine si riferiscono a un esercizio direttivo del potere e a una visione discendente dell’autorità. Sono parole d’ordine anche quelle che possono essere fecondamente suggerite da un documento programmatico o dall’indirizzo orientativo di chi ricopre un preciso ruolo di responsabilità.
Le parole d’uso invece sono quelle circolanti in maniera operativa nella vita di una comunità, sono le parole adoperate orizzontalmente che permettono a un gruppo non solo di riconoscersi in un orientamento comune, ma di contribuire un comune progetto di trasformazione e cambiamento.
Non sempre le parole d’ordine riescono a tradursi in parole d’uso, talvolta possono restare inattive ovvero stivate nella memoria collettiva quali semplici ricordi di un’epoca o di una personalità storica. In tal caso l’elenco delle parole d’ordine rischia di diventare l’epitaffio commemorativo di una figura singola o singolare. Ciò che conta invece sono le parole d’uso, contano cioè le parole grazie alle quali, a un certo punto della nostra storia, «ci siamo messi a parlare» – per usare un’espressione cara a Michel de Certeau.
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Negli ultimi anni ad esempio la parola «discernimento» è diventata una parola d’uso nel vissuto quotidiano delle chiese. Rispetto al passato usiamo questa parola per indicare alcune pratiche concrete e ordinarie della vita ecclesiale, gesti puntuali per animare il confronto tra le persone e per prendere alcune decisioni. La questione non riguarda semplicemente la risignificazione del termine discernimento, ma ciò che i battezzati e le battezzate sono oggi in grado di fare quando usano questo termine. Il discernimento non è un pezzo del patrimonio lessicale della chiesa cattolica, è invece la qualificazione performativa di alcuni gesti e realtà specifiche, mediante i quali il popolo di Dio parla, agisce, vive. In tal senso il discernimento è diventato una parola d’uso.
Un altro esempio è la parola «processo». Oggi, negli ambienti ecclesiali più diversi, usiamo con una certa familiarità e scioltezza questo termine. Anche quando convochiamo una riunione parrocchiale o associativa, tendiamo a collocarla sempre più naturalmente all’interno di un percorso, di una traiettoria. Il processo diventa una parola d’uso nel momento in cui le comunità iniziano a disporre i singoli eventi della vita ecclesiale dentro un cammino graduale, più ampio rispetto alle singole cerchie particolaristiche, più esteso rispetto alla prospettiva temporale di una generazione soltanto. La parola processo diventa parola d’uso (comune) nella chiesa quando smette di rimandare all’immagine di una sovrastruttura applicabile alla realtà e diventa invece sinonimo di «sentiero».
I sentieri infatti sono l’immagine più pregnante ed evocativa di ciò che rappresenta l’uso nella vita dei popoli e delle comunità. Se un sentiero non viene praticato, dopo poco tempo sparisce. Solo l’andare e il venire di molti piedi impolverati alimenta la vita di un sentiero in quanto varco utile e agibile all’interno di un bosco. Non puoi ereditare o patrimonializzare un sentiero, puoi solo farlo vivere ovvero usarlo, praticarlo, percorrendolo insieme ad altri, più volte al giorno. Scrive a tal proposito l’antropologo inglese Tim Ingold:
«Proprio perché viene continuamente coprodotto nella collaborazione tra generazioni, il sentiero non viene ereditato; forse è per questo motivo che, ancora oggi, sono molto pochi i sentieri celebrati come personificazioni del patrimonio […]. Trasformare un sentiero in patrimonio vorrebbe dire interrompere questo movimento e trasformarlo in un oggetto della memoria».
Per avere cura dunque dei «processi avviati» non bisogna sforzarsi di mantenere in vita alcune parole d’ordine, basta fiutare invece quelle parole d’uso che segnano già i molti sentieri praticati e praticabili dal popolo di Dio.
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Vorrei porre infine l’attenzione su un’altra parola d’uso: «contesto». Nel mese di dicembre 2024 si è tenuto a Roma un grande Congresso internazionale sul Futuro della teologia: eredità e immaginazione, organizzato dal Dicastero per la Cultura e l’educazione. A quell’incontro parteciparono numerose teologhe e teologi provenienti da tutto il mondo; una variegata assemblea, abbastanza rappresentativa delle numerose realtà accademiche ed ecclesiali dove la teologia cattolica viene oggi elaborata e studiata. A mio avviso uno degli elementi di maggiore rilievo di quel convegno è stato proprio l’uso ricorrente e trasversale della parola contesto. È stato sorprendete osservare come tra i numerosi partecipanti fosse condivisa la convinzione che oggi è impossibile ignorare il ruolo dei contesti e della contestualità nelle pratiche teologiche.
Contesto non è sinonimo di locale, così come contestualità non è sinonimo di localismo. L’appello alla dimensione contestuale rimanda infatti ai processi di costruzione sociale della realtà. I contesti non sono mai una scena separata e indipendente rispetto alle azioni e alle opere. Questo è oltremodo evidente per la stessa elaborazione teologica: i contesti non sono per la teologia semplici spazi geografici (regioni, nazioni, continenti) nei quali alcuni uomini e donne pensano Dio e la fede. I contesti sono invece una componente attiva del lavoro teologico, non sono luoghi ma processi. I contesti così intesi sono autentici «campi operativi» grazie ai quali anche i teologi possono considerare se stessi come persone che non lavorano mai «sulle» cose, ma sempre «insieme» alle cose.
L’eredità del Sinodo per l’Amazzonia è racchiusa fondamentalmente in un’indicazione di metodo: in quanto contesto riaggregativo, l’Amazzonia non esiste indipendentemente dal lavoro di tessitura culturale condotto dai popoli che la abitano o ne hanno cura. L’Amazzonia non è un territorio inerte dentro il quale si svolge la vita di intere chiese e comunità, è invece l’insieme di relazioni presenti e future che quelle stesse chiese e comunità riusciranno a stabilire tra loro e con il creato. Il contesto è già una parola d’uso perché non si limita a contenere l’azione, ma è parte dell’azione stessa. Nella vita ecclesiale i contesti non sono stanze vuote, ma sentieri.