Bambini abbandonati, ferita che sanguina in ogni coscienza

di Maurizio Chiodi

Il crollo delle adozioni è un’evidenza – e un’urgenza – non solo italiana, ma internazionale.

Certo, il dato suscita una comprensibile preoccupazione in Italia, uno dei paesi tradizionalmente più accoglienti, almeno in questo campo. In questa prospettiva suonano particolarmente suggestive le parole che papa Francesco ha dedicato all’adozione, nella catechesi di mercoledì 5 gennaio, nel contesto delle riflessioni sulla figura di san Giuseppe.

Dopo aver richiamato un bel passaggio della sua lettera Patris corde – padri e madri “non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende cura responsabilmente di lui” , il Papa ha parlato, con franchezza, con biblica parresia, della “paura” e del “rischio” legati all’accoglienza adottiva: «non bisogna avere paura di scegliere la via dell’adozione, di assumere il rischio dell’accoglienza».

Come vincere la paura, come affrontare il rischio?

Francesco stesso, in modo essenziale, suggerisce il cammino per andare oltre: «quanti bambini nel mondo aspettano che qualcuno si prenda cura di loro!».

Stando ai dati Unicef, si stima che circa 2,7 milioni di bambini vivano in Istituto e che, su circa 120 milioni di abbandonati, senza famiglia, poco più del 20% di questi siano adottabili.

Ecco come vincere la paura: si tratta di ascoltare l’appello, il grido, a volte anche molto silenzioso, il dolore spesso inespresso e nascosto di chi, pur essendo stato generato come figlio, non è più figlio.

Su questo dobbiamo sostare: sulla ferita che si nasconde nella drammatica esperienza dell’essere abbandonati. Certo, dietro un abbandono si possono celare le ragioni più diverse e a volte esso potrebbe addirittura nascondere un atto di responsabilità e di amore. Dal punto di vista di chi lo patisce, però, l’abbandono è un’esperienza di dolore e di fatica.

Un figlio adottato è sempre un figlio abbandonato e purtroppo molti figli abbandonati non conoscono lo stupore, la gioia, e anche la fatica, di essere adottati.
L’adozione è la risposta generosa e bella al dramma dell’abbandono. Non si tratta, però, come dice papa Francesco di ‘un ripiego’.

Questo vale anzitutto per la coppia che accoglie: l’adozione non può essere una scelta per riempire il vuoto e la delusione legati alla difficile esperienza della sterilità. Non per nulla, come dice Francesco, anche genitori che hanno già figli, possono decidere di «condividere l’affetto familiare con chi ne è rimasto privo».

L’adozione non è un ripiego nemmeno per il bimbo che viene accolto, non è un atto di riparazione o un ‘restauro’ per rabberciare alla bell’e meglio un fallimento. Si tratta, al contrario, di una risposta che trasforma l’abbandono in occasione di un dono e questo, va sottolineato, è tutt’altro che un atto ‘compassionevole’, nel senso pietistico della parola. L’adozione è un atto di responsabilità, in cui sia la famiglia che accoglie sia chi viene accolto hanno molto da donare e molto da ricevere.

Tutto questo non va senza il dramma, la fatica, il rischio. Il ‘rischio’ è l’altra parola di papa Francesco. Generare, in effetti, è sempre un rischio.

Questo vale sia per chi genera nella carne, sia per chi genera adottando. Mettere al mondo un altro significa sempre rischiare. Nulla è programmabile, perché si accoglie un altro, irriducibile a sé. Generare è un atto di fiducia e di fede, non solo nel mondo che ci attende, ma anche nell’altro che è generato.

Anche adottare è un rischio. Non per nulla molti hanno tante perplessità e dubbi. Si dice: adottare un bambino abbandonato, magari già grandicello, con molti problemi e una storia difficile, significa andare incontro a altrettanti rischi, difficoltà, ostacoli, fatiche.
Questa paura del rischio, in realtà, rivela un rischio ben più grave: è il desiderio del ‘figlio perfetto’, il figlio ‘oggetto’ del proprio desiderio, a misura delle nostre pretese. Il ‘figlio del desiderio’ è però ben altro dal “desiderio del figlio”.

Si tratta di un rovesciamento pesante, che va a incidere sul senso stesso dell’atto generante di un padre e di una madre. Nessun figlio è riducibile ad oggetto del proprio desiderio. Così egli diventerebbe la proiezione di un sé onnipotente.

La pretesa che «mio figlio sia come me» nasconde un’egolatria e una ipertrofia dell’ego, che diventa misura di ogni cosa. Al contrario, desiderare un figlio significa aprirsi a un altro, irriducibile a sé. Questo, peraltro, vale per ogni altro: la relazione con lui ci sorprende, ci costringe a fare spazio al nuovo, all’imprevisto. Di quel figlio tu ti prendi cura, sapendo che un giorno, proprio grazie alla tua cura, ti lascerà. E questo ‘lasciare andare’ si distilla nel tempo, man mano che il figlio cresce.

Non ti prendi cura di tuo figlio sulla base di un calcolo: «un giorno, quando sarò vecchio, sarà lui a prendersi cura di me». Generare un figlio è un dono ‘a perdere’. Questo non esclude affatto che non si debba attendere e desiderare che egli sia grato del dono ricevuto.

Il culmine della gratitudine non è un atto di restituzione: è, piuttosto, la scelta di donare – a tutti, e anche ai propri genitori – quel che abbiamo ricevuto. Così la vita custodisce il circolo virtuoso del dono: è dando che si riceve, è donando che si scopre il dono che abbiamo anzitutto ricevuto. Certo, dice papa Francesco: «È un rischio, sì: avere un figlio è sempre un rischio, sia naturale sia d’adozione. Ma più rischioso è non averne », perché – potremmo così commentare – significa rinunciare a donare e, in fondo, non sapere ricevere, non essere grati per quel che abbiamo ricevuto.

Per questo, come dice ancora il Papa, l’adozione «è tra le più alte forme di amore e di paternità e maternità ». L’accoglienza adottiva accetta la sfida di ‘inventare’ con un figlio, da altri generato, un processo di maternità e paternità, che coinvolge la carne, il tempo, gli affetti, il tempo, le risorse, le attese, le paure, le fatiche e le gioie, proprio come tutti coloro che generano, nel corpo, il proprio figlio. In tal senso, se i genitori ‘nella carne’ hanno di che istruire i genitori ‘adottivi’, anche questi hanno di che istruire i genitori “nella carne”, poiché ricordano a questi che non basta mettere il mondo un bimbo, per volerlo davvero.

Per un uomo e una donna, volere un figlio significa rispondere ad una grazia che li sorprende e li supera. Ogni figlio va “adottato”, acconsentendo nella libertà al dono ricevuto. La paura di adottare, dunque, si supera solo imparando a prendersi cura della solitudine, della “ferita” di chi non è più figlio, perché quella ferita diventi una cicatrice e dunque un segno di rinascita, di vita e di speranza. La paura “passa” solo scegliendo di continuare a sperare, per sé e per l’altro. L’adozione è un atto di cura, di responsabilità e di generatività, che dà carne a questa speranza, come testimoniano le molte famiglie che hanno adottato.

Così, con gioia e con stupore, una di queste mi diceva, commentando le parole del Papa: «Francesco ha dato voce ai nostri figli».

(da Avvenire di domenica 16 gennaio 2022)