Cinquant’anni fa la legge sul divorzio, per i figli resta un trauma
Pochi interventi legislativi hanno modificato così radicalmente la vita quotidiana delle persone e delle famiglie nel nostro Paese come la legge sul divorzio, approvata il 1° dicembre 1970 dopo un dibattito caldissimo, e poi sottoposta ad un altrettanto infuocato referendum (ben quattro anni dopo, nel 1974). Sono quindi passati cinquant’anni, e già in occasione degli altri decennali molti hanno ricostruito il momento storico, l’evoluzione nel tempo, gli ulteriori passaggi e mutamenti legislativi. Qui preferiamo segnalare sinteticamente alcuni punti chiave, non sempre evidenziati con chiarezza nel dibattito passato e presente, per affrontare la posta in gioco in modo riflessivo, senza cedere alle contrapposizioni delle opposte tifoserie.
Il primo nodo riguarda proprio la posta in gioco, ridefinita sulla base di cinquant’anni di storia. Nel 1970, infatti, il dibattito era radicalmente polarizzato tra progressisti e reazionari, tra difesa della famiglia e crollo della civiltà, tra libertà delle persone e difesa di una istituzione naturale. Giudicare i linguaggi e le scelte di cinquant’anni fa con i criteri di oggi è certamente sbagliato; oggi però possiamo dire che in effetti la posta in gioco era l’idea stessa di famiglia fondata sul matrimonio come istituzione essenziale per la società. Dopo cinquant’anni siamo certamente entrati nella “società post-familiare”, in cui le scelte di coppia e familiari sono state fortemente privatizzate, e la famiglia si è liquefatta, quasi evaporando (il Rapporto Cisf 2020 parla di “family warming”, surriscaldamento dei legami familiari, in analogia con il global warming, il riscaldamento globale dell’ambiente). Si tratta di un mutamento culturale di lungo periodo, e certamente una legge da sola non basta a spiegare questa trasformazione epocale: tuttavia la legge sul divorzio del 1970 è stato un passaggio importante, in questo processo di progressivo svuotamento della rilevanza sociale della famiglia. E questo ha certamente indebolito il tessuto sociale.
In secondo luogo si è consolidata, in questi cinquant’anni, la progressiva privatizzazione del legame di coppia. Di fatto la società ha rinunciato a sostenere le coppie in difficoltà, lasciando alla loro totale autonomia (e solitudine) ogni scelta di continuità o di interruzione. La stessa legge del 1970, in effetti, prevedeva un tentativo – obbligatorio – di mediazione e riconciliazione da parte del giudice, prima di procedere alla procedura giuridica della separazione, ma ben presto questo tentativo è stato totalmente dimenticato (o è rimasto solo formale); come se la tenuta del legame di coppia non interessasse più alla società, e fosse un fatto “solamente privato”. Eppure in questi cinquant’anni tutte le indagini sul benessere delle persone e delle famiglie ha confermato che coppie stabili proteggono maggiormente il benessere delle persone (e non solo dal punto di vista economico). Forse alcuni conflitti nella coppia sono davvero irrimediabili; ma stupisce, in questi cinquant’anni, la totale resa della società nel difendere un prezioso luogo di coesione sociale e di responsabilità pubblica, quale è il rapporto di coppia, con scarsi o nulli interventi di sostegno durante la crisi e la rottura, limitandosi a (pochi) interventi di mediazione “post-separazione” – pur fondamentali. In fondo è accaduto lo stesso anche con la legge sull’aborto, che aveva al proprio interno una serie di articoli che esplicitamente obbligavano lo Stato a prevenire tale scelta, ma che sono rimasti pressoché totalmente inapplicati, a favore di una fraintesa tutela assoluta della libertà di scelta, che poi diventa spesso abbandono ed isolamento della donna.
Un terzo nodo che la storia di questi cinquant’anni ha evidenziato è la sofferenza dei figli coinvolti nelle separazioni dei propri genitori. Fiumi d’inchiostro sono stati spesi sul tema, e la letteratura psico-sociale e giuridica a livello internazionale ha offerto una panoramica ricchissima di riflessioni, spesso con forti obiettivi di “validazione ideologica” delle varie tesi. Non si tratta di individuare determinismi meccanici, secondo i quali la separazione dei genitori è sempre un grande dolore per i figli, né, sul versante opposto, di sostenere che ogni coppia genitoriale è capace di essere “benefica” verso i propri figli, per il solo fatto di “rimanere coppia”. La vita è complessa, e tanti sono gli elementi che proteggono o minacciano il benessere dei bambini. Questi cinquant’anni di storia di separazioni confermano comunque (non solo nel nostro Paese) che la separazione dei genitori è un evento traumatico per i figli, che va elaborato ed accompagnato con grande sapienza, non solo dalla coppia genitoriale coinvolta, ma anche dalla società nel suo complesso (reti parentali allargate, scuola, servizi socio-psicologici, mass media). La grande resilienza dei bambini, che sono capaci di attraversare grandi dolori, non deve nascondere l’oggettiva ferita che quasi sempre la separazione genera in loro. Tra l’altro si innesca spesso – soprattutto nel nostro Paese – un grave distanziamento dai padri (a volte la perdita quasi totale delle relazioni), fonte di grandi sofferenze per figli ed adulti. E anche per le madri separate spesso la separazione genera ferite, sofferenze, impoverimento, sovraccarico emotivo e di gestione dei figli.
Da ultimo, non si può ovviamente dimenticare che in molti casi la separazione è stata scelta obbligata, che ha consentito di prevenire maltrattamenti, violenze e sofferenze (soprattutto ai danni di donne e bambini), in quelle famiglie malate in cui il codice della sopraffazione vince su quello della solidarietà e della cura. Ma bisogna anche fare i conti con un’altra eredità di questa legge, dopo mezzo secolo di storia: una famiglia sempre più privatizzata e “inutile”, irrilevante, legami di coppia sempre più volatili (fino alla loro banalizzazione), e un numero crescenti di bambini con relazioni genitoriali interrotte, e una forte sofferenza relazionale. Più che celebrare, quindi, serve ripensare, e decidere finalmente di investire sulla stabilità della famiglia e sulla sua capacità di essere risorsa di benessere per le persone e per la comunità.