Samaritanus Bonus, l’intervento di Gabriella Gambino

Non esistono pazienti incurabili, ma solo pazienti inguaribili, ed è una falsa compassione quella praticata da coloro che promuovono azioni come eutanasia e suicidio assistito, che non rispetta il diritto del malato ad essere accompagnato in tutte le fasi della vita.

Questo il senso di Samaritanus Bonus, la lettera sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita,  redatta Congregazione per la Dottrina della fede e presentata il 22 settembre in Vaticano dal cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, S.I., Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, monsignor Giacomo Morandi, Segretario della Congregazione; la professoressa Gabriella Gambino, Sotto-Segretario del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e docente del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II e il professor Adriano Pessina, Membro del Direttivo della Pontificia Accademia per la Vita. Riportiamo di seguito l’intervento della professoressa Gambino.

TRE ASPETTI DA APPROFONDIRE DELLA SAMARITANUS BONUS 

di Gabriella Gambino

Sono tre gli aspetti della Samaritanus bonus che vorrei approfondire brevemente e che costituiscono i principi fondanti della Lettera.

Il primo aspetto è la condizione umana da cui prende le mosse il documento: la vulnerabilità di ogni essere umano, corpo e spirito, misteriosamente segnato da quel desiderio di Amore infinito che lo destina all’eternità.

Il malato, in particolare, è colui che vive una condizione di sofferenza e bisogno, nella quale la scissione fra corpo e anima esige – nella relazione di cura – la ricomposizione dell’integrità della persona. Nella malattia, il paziente ha un disperato bisogno di aiuto nel cogliere e assumere su di sé il senso di quella indicibile sofferenza, superando la mera ragione umana e i sentimenti, in una prospettiva capace di raccogliere tutta la dimensione spirituale e trascendente della persona.

Una delle maggiori sfide che la Lettera Samaritanus bonus sottende è, infatti, l’antropocentrismo tipico della modernità, centrato sulla cultura dell’autonomia e dell’indipendenza dell’uomo da Dio, per cui l’orizzonte entro il quale si cerca il valore della sofferenza umana è quello meramente antropologico immanente: l’uomo si limita a cercare il significato ultimo della vita e della morte in quello che Benedetto XVI definiva il bunker della propria ragione. E in essa resta imprigionato. La dimensione spirituale dell’uomo, piuttosto, non si riduce alla realtà della psiche, dell’intelletto umano, della volontà o del sentimento, ossia ad una spiritualità gnostica – come oggi si tende a credere – ma si muove a partire dalla presenza di un’Alterità, dall’azione dello Spirito Santo, e ha pertanto bisogno di aprirsi alla relazione con un Padre, che ha il Volto dell’Amore, con il quale entrare in comunione, specialmente alla fine della propria vita. È l’incontro con questo Amore che decentra l’uomo da sé e gli consente di trovare quella pace che allontana la paura e la disperazione: è l’incontro con Cristo, che non dona, ma si dona, trasfigurando la sofferenza della persona malata, rendendola espressione di quell’Amore che solo restituisce all’uomo la dignità che gli è propria.

Per questo la cura non può ridursi al prendersi cura del malato in una prospettiva medica o psicologica, ma deve estendersi a quell’atteggiamento virtuoso di devozione e preoccupazione per l’altro, che si sostanzia nell’avere cura di tutta la persona in stato di bisogno. È l’avere cura, infatti, che sottende l’incontro dell’Io col Tu, richiamando l’uomo da quella condizione di insignificanza ed ansietà in cui lo getta la malattia, aiutandolo a ritrovare unità di corpo e spirito. Un aspetto, questo, carico di implicazioni pastorali e bioetiche, che dovrebbe indurci a modificare il modo con cui in tanti contesti di cura si prendono in carico i malati critici e terminali.

E vengo al secondo punto: ossia il principio per cui l’avere cura dell’altro in stato di bisogno non è solo una questione etica di solidarietà sociale o di beneficialità e non maleficenza, al fine di perseguire il bene e non far danno all’altro, ma è molto di più: è il “dare a ciascuno il suo”, il dovere giuridico, in senso stretto, di riconoscere ad ogni persona ciò che le spetta, in virtù della propria vulnerabilità; il riconoscimento, come dato di fatto, del valore inestimabile della propria vita, come limite invalicabile di fronte a qualunque rivendicazione di autonomia. Nella relazione di cura, infatti, che è di per sé una relazione asimmetrica, si impone una domanda di giustizia, ossia di ritorno alla simmetria, di riconoscimento dell’altro in stato di bisogno e del senso del suo esserci nel mondo. La cura, in altre parole, appartiene – oltre che alla dimensione etica del bene – all’ordine della giustizia.

È quest’aspetto a generare i maggiori problemi oggi: nella società liberale del nostro tempo, l’autonomia e la reciprocità (nel senso del do-ut-des, ossia “ti do se tu mi dai”) si sono fatte espressione di un concetto di bene che scaturisce da una mentalità contrattualista, centrata sul “diritto alla solitudine” e sul principio del “permesso-consenso” dell’individuo, per cui anche al vivere si può rinunciare come ad un qualsiasi bene materiale. In tal senso, ciò che la Samaritanus bonus intende ribadire con forza è che nella relazione di cura, il modello contrattualista va sostituito con un modello costruito sul principio di vulnerabilità, nel quale chi ha cura del malato agisce in virtù di una responsabilità che, a partire dalla propria condizione originaria di vulnerabilità, prende coscienza del suo dover aver cura dell’altro che soffre. Segnando così l’orizzonte etico in cui la responsabilità orienta l’agire umano: l’attenzione, cioè, a non scavalcare mai il limite della protezione della vita umana. L’avere cura della vita non si fonda, dunque, su un teorico rispetto di principi, che possono oscillare a seconda delle circostanze, ma sull’interdipendenza tra gli esseri umani, sul nostro essere-come-l’altro e con-l’altro nella fragilità. Per questo non può mai venir meno.

E vengo all’ultimo aspetto sul quale ritengo necessario soffermare l’attenzione, quello che costituisce il fondamento di qualsiasi ordine giuridico: il valore di ogni persona in qualunque fase e condizione critica dell’esistenza.

Ciascuno di noi è creato a immagine e somiglianza di Dio ed è destinato alla comunione con Lui: in questa vocazione – e non in altro – sta il fondamento della nostra dignità. Per questo la vita umana è sempre un bene intangibile e inalienabile, di cui nessuno può privare un altro, nemmeno su richiesta. Non esiste il diritto a disporre della propria vita, non esiste il diritto a disporre della vita altrui. Le leggi che in qualsiasi modo legalizzano pratiche eutanasiche, inclusi i protocolli medici come i “Do not resuscitate order”, che vincolano i medici all’assoluta autodeterminazione dei pazienti, deformano la relazione di cura, generano abusi nei confronti dei soggetti più deboli, come le persone anziane, e creano una evidente confusione culturale nel discernimento tra bene e male. Le stesse cure palliative, che sono essenziali e doverose per garantire la continuità dell’assistenza al malato nelle fasi critiche e terminali della vita, non possono diventare forme di cripto-eutanasia, quando siano previste da leggi nazionali sul fine-vita che prevedono la cosiddetta Assistenza Medica alla Morte volontaria, inducendo a credere che eutanasia e suicidio assistito siano parte delle cure palliative. In tal senso, qualunque forma di rispetto della volontà del paziente – espressa anche tramite dichiarazioni anticipate – o di rinuncia all’accanimento terapeutico deve sempre e comunque escludere qualsiasi atto o intenzione di natura eutanasica o suicidaria e piuttosto accompagnare alla morte naturale.

Ciò vale anche nei confronti dei bambini in età prenatale e pediatrica, rispetto ai quali occorre far luce su due questioni: in primo luogo, il principio della prevenzione, che non si sostanzia mai nell’uccisione deliberata di una vita umana innocente per evitare che nascano bambini malati o destinati ad una breve vita. L’aborto selettivo ed eugenetico è gravemente illecito, così come, dopo la nascita, la sospensione o la non attivazione di cure al bambino solo per la possibilità o il timore che sviluppi delle disabilità. Al bambino, prima e dopo la nascita, spetta la medesima continuità assistenziale e di cura degli adulti, che oggi si può attuare negli Hospice perinatali. Il secondo principio è quello del “miglior interesse del minore”: in nessun modo esso può essere utilizzato per decidere di abbreviare la vita di un bambino al fine di evitargli delle sofferenze con azioni od omissioni che possano configurarsi come eutanasiche. Piuttosto, esso comporta che siano sempre garantite le cure essenziali di sostegno vitale finché l’organismo è in grado di beneficiarne, adottando tutte le misure necessarie perché siano somministrate in maniera personalizzata, dolce, indolore e proporzionata, ossia nel suo vero interesse.

Dinanzi alla complessità della gestione medica della malattia e della morte, ad una cultura secolarizzata e a legislazioni che ci confondono sul valore della sofferenza e della nostra vita, con la Lettera Samaritanus bonus la Chiesa desidera rimettere al centro l’uomo nella sua integralità, uni-totalità di corpo e spirito, e ricordarci che siamo figli di un Padre che ci ha amati sino alla fine, l’unico che può rendere dolce il peso della nostra sofferenza.