SOS famiglia. Senza figli non c’è futuro

Conversazione tra Gianpiero Dalla Zuanna, Vincenzo Paglia e Roberto Volpi
a cura di Antonio Carioti
Cinquant’anni fa, il 1° dicembre 1970, veniva approvata la legge sul divorzio. Nella ricorrenza abbiamo invitato a confrontarsi sulla famiglia lo statistico Roberto Volpi, autore di vari libri sul tema, Gianpiero Dalla Zuanna, demografo dell’ Università di Padova, e monsignor Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio Istituto per le Scienze del matrimonio e della famiglia.

ROBERTO VOLPI – Nel decennio che precede l’ introduzione del divorzio, in Italia predomina in modo schiacciante il matrimonio religioso, adottato nel 98 per cento dei casi. L’unione indissolubile, secondo le norme della Chiesa, viene vissuta dalle coppie come le corde di un ring in un incontro di pugilato. La vita famigliare presenta traversie, difficoltà, conflitti, infelicità, ma gli attori restano sul ring perché ce li tengono quelle corde.
Quando arriva il divorzio, le corde spariscono, diventa possibile lasciare il ring o esserne buttati fuori. Il matrimonio perde il marchio di fabbrica che ne faceva un vincolo a vita. Perciò il contraccolpo in Italia è più forte che altrove. La funzione stessa delle nozze viene messa in dubbio e si comincia a pensare che bastino i sentimenti a tenere insieme una famiglia.

GIANPIERO DALLA ZUANNA – In Italia, fino al 2015, i tempi per ottenere il divorzio erano lunghi, ci si arrivava dopo 3 o anche 5 anni di separazione legale. E nella metà dei casi i coniugi separati non chiedevano il divorzio, cosicché restavano tra loro dei legami, per esempio in campo ereditario. Un altro punto è che, a differenza di quanto avviene nel resto dell’ Occidente, in Italia separazioni e divorzi sono di solito tardivi, avvengono in media 15 anni dopo il matrimonio, mentre in altri Paesi siamo a 7-8 anni. Ciò vuol dire che le corde del ring, per usare la metafora di Volpi, si sono allentate, ma hanno resistito ben oltre il 1970. Ora le cose stanno cambiando, dopo l’ introduzione del divorzio breve, ma non abbiamo dati sufficienti per trarre conclusioni.

VINCENZO PAGLIA – Nella cultura italiana, dalla metà del Novecento in poi, c’è stata una mutazione antropologica profonda. La spinta all’ affermazione individuale, fino al culto di sé stessi, ha preso il sopravvento. Così il soggetto postmoderno per un verso è divenuto avido come non mai di relazioni che lo confermino, che gli dicano «mi piaci», ma nello stesso tempo insofferente dei vincoli durevoli. Ormai non si sale più su un ring con un altro: ciascuno combatte da solo e per sé stesso. In una società individualista non ci si sposa, si preferisce la coabitazione, che implica meno responsabilità. Anche i sentimenti sono diventati liquidi, la dipendenza reciproca appare un peso. Non è solo una crisi della famiglia, ma dell’ intera società in cui l’Io prevale sul Noi. E Narciso diventa il primo santo del calendario. La legge sul divorzio è un frutto di questa trasformazione che ha intaccato il senso dei legami vicendevoli.

ROBERTO VOLPI – Come dice Dalla Zuanna, le corde sono in parte rimaste, anche se sul ring si sale sempre meno. Le stesse convivenze di fatto da noi non hanno avuto il successo riscosso in altri Stati europei. Ma è riduttivo, monsignor Paglia, imputare tutto a un eccesso di individualismo. Contano molto fattori specifici e strutturali della società italiana. Centrali sono le difficoltà enormi che i giovani incontrano nell’accedere al lavoro. Ci si preoccupa solo di sostenere le famiglie in essere, mentre bisognerebbe pensare a quelle che dovrebbero venire, ma non ci saranno senza una svolta. Se si esce a 27 anni da un ciclo di studi senza concrete prospettive di trovare lavoro, è chiaro che non ci si sposa. Non è solo questione di individualismo, perché in fondo anche formare una famiglia e avere figli è una forma di affermazione personale. Il punto è che non si aiutano i giovani a farlo, a salire sul ring: manca nella classe dirigente, non solo quella politica, la consapevolezza di quanto sia messa male l’ Italia sotto il profilo demografico.

GIANPIERO DALLA ZUANNA – In realtà l’Italia, come in genere i Paesi mediterranei e anche altri (Giappone e Corea del Sud), si contraddistingue per la forza persistente dei legami di sangue. È un dato antropologico. Per esempio tra genitori e figli c’è una prossimità abitativa enorme. Chi può, ricco o povero che sia, va a risiedere vicino ai genitori, molto più di quanto non avvenga in Francia o in Germania. Oppure pensiamo alla tassa di successione, che in Italia di fatto non esiste, visto che è del 4% del patrimonio, ma con una franchigia di un milione di euro per ciascun erede. Nel Regno Unito la tassa è del 40%, con franchigia complessiva di 360 mila euro. Il vincolo tra genitori e figli si rafforza in tempi di crisi e a volte viene rinsaldato proprio dal divorzio, perché chi scioglie il suo matrimonio di solito si riavvicina anche fisicamente alla famiglia d’ origine. A tutto questo si aggiunge il rafforzamento dell’idea, vecchia peraltro di oltre tre secoli, secondo cui le relazioni devono basarsi solo sull’attrazione reciproca, senza interferenze della Chiesa o dello Stato. E un altro punto è che questi legami famigliari sono più forti proprio nelle aree con bassa fecondità.
ROBERTO VOLPI – Non è un caso.
GIANPIERO DALLA ZUANNA – Certo che no. Se il rapporto con i figli è tanto importante, prima di metterne al mondo uno si richiedono condizioni di sicurezza maggiori rispetto ad altri Paesi. E si è anche meno disposti ad accettare un intervento dello Stato in questo campo. Sono problemi che vanno oltre l’ individualismo e di cui bisogna tenere conto.
VINCENZO PAGLIA – Criticare l’ iperindividualismo non significa che si deve abbandonare la conquista della soggettività, che resta un valore centrale della modernità. La deriva che constatiamo è il crollo del Noi in tutte le articolazioni: la famiglia ma anche altre forme associative, a cominciare dai partiti. Di qui la crescita di particolarismi e sovranismi. È la società che si polverizza. Basti pensare al singolare fenomeno delle «famiglie unipersonali», molto cresciuto in Italia e in Europa. Persone che scelgono di vivere sole anche se vogliono chiamarsi famiglia. Insomma, cresce un nuovo culto: la «egolatria», sul cui altare si sacrifica tutto. È urgente riavviare una cultura del Noi. E non bastano gli aiuti economici, pur indispensabili, serve una rivoluzione antropologica, quella della fraternità a cui papa Francesco ha dedicato la recente enciclica. Già Cicerone definiva la famiglia principium urbis et quasi seminarium rei publicæ , un luogo generativo della vita sociale, pubblica. È una visione da riscoprire e aggiornare. La pandemia ci ha mostrato che siamo tutti connessi: nessuno può salvarsi da solo. Bene, l’ interconnessione di fatto deve diventare scelta
personale, sociale e politica.

ROBERTO VOLPI – Vorrei tornare sul caso mediterraneo: forti legami di sangue e calo della fecondità. La tenuta dei legami tra parenti stretti non impedisce l’evaporazione della famiglia che porta al crollo demografico. In Italia ormai siamo a 1,2-1,3 figli per donna, rischiamo l’estinzione. Non sorgono nuovi nuclei: il nostro tasso di nuzialità è il più basso d’Europa, l’ età media delle donne che si sposano per la prima volta la più alta. E poi, anche lasciando da parte i numerosi individui che vivono da soli, il 70% delle famiglie è composto al massimo da tre persone. Da dieci anni calano le nascite: quest’anno toccheremo a stento le 400 mila e il prossimo saremo sotto. Abbiamo una natalità inferiore del 30% a quella dell’Ue, cioè l’ area del mondo meno feconda, assieme all’Estremo Oriente. Ci sono molte province dove le persone che muoiono sono il doppio di quelle che vengono alla luce. Secondo la Washington University, alla fine del XXI secolo noi italiani saremo ridotti a 28 milioni da 60 che siamo. L’Onu, più cauta, ci dà sotto i 40. Ci avviamo ad avere una popolazione non più vitale. Servirebbe uno sforzo formidabile per invertire la tendenza, ma siamo già in grave ritardo. Bisogna investire sui giovani, aprire il mercato perché trovino un impiego ben prima di quanto non succeda adesso. Invece di tenerli bloccati in lunghissimi processi formativi, occorre consentire loro di aggiornarsi e perfezionarsi mentre già lavorano.

VINCENZO PAGLIA – La crisi è grave. Però nella pandemia la famiglia è il porto in cui gli italiani hanno trovato rifugio. Tutti sono consapevoli che la solitudine fa male. E nei giovani vedo l’ aspirazione a vivere per sempre con la persona che amano. Purtroppo è la cultura dominante che li ostacola.

ROBERTO VOLPI – Ma la cultura non si può separare dalle condizioni oggettive sfavorevoli. C’ è un terreno socio-economico da risanare.

VINCENZO PAGLIA – Concordo, si tratta di rispondere su diversi piani, compreso quello spirituale, al bisogno di famiglia iscritto nel cuore di tutti. Papa Francesco ci ha esortati a uno scatto morale per essere vicini anche alle famiglie indigenti, ferite, problematiche. Non bisogna concentrarsi sulla coppia, ma su tutti i legami famigliari, vissuti come una trama vitale dell’ intera società, dalle parrocchie ai quartieri, dalle città al Paese, e oltre. È una
sfida urgente da raccogliere.
GIANPIERO DALLA ZUANNA – Le attuali previsioni sull’andamento demografico sono preoccupanti, ma spesso quelle del passato erano errate. Negli anni Sessanta ci si aspettava che l’ Italia arrivasse presto a 70 milioni di abitanti, ma poi la fecondità crollò, mentre negli anni Ottanta si ipotizzava un calo drammatico che poi è stato compensato dall’immigrazione. Quindi restiamo cauti. Tra l’ altro tutte le ricerche dimostrano che i giovani desiderano formare una famiglia e avere due o tre bambini. Inoltre c’è l’ esempio della Germania, che ha aumentato il tasso di natalità, portandolo in linea con la media europea,con misure favorevoli alle coppie con figli. In Italia le province di Trento e Bolzano hanno attuato con successo politiche d’incentivo alla fecondità. Quindi il problema non è solo culturale, riguarda anche le leggi. Per tornare al fisco, esentare dall’Imu la prima casa significa ancora una volta privilegiare le famiglie in essere rispetto a quelle da formare. Abbiamo il record delle persone senza figli (in Veneto una donna su quattro): dobbiamo cambiare il welfare, spostando risorse ingenti, per rendere la società più accogliente verso le famiglie.
ROBERTO VOLPI – Le previsioni demografiche spesso sbagliano, ma le tendenze di lungo periodo sono difficili da modificare. La Germania ha compiuto uno sforzo enorme, ma è arrivata a 1,5 figli per donna, ha davanti una strada lunga. In Italia la popolazione ha un’età media elevata, quindi è fragile. Le donne in età feconda, tra i 15 e i 49 anni, sono il 40 per cento (in Toscana il 38), mentre in Europa sono il 45 e altrove ben di più. Se non immettiamo subito nuove energie, coppie con la potenzialità e la prospettiva dei figli, non possiamo risollevarci.
VINCENZO PAGLIA – Lo ripeto. Non tutto dipende dalla politica. C’è bisogno di un sogno comune. Siamo scarichi, ripiegati sul presente. Mi torna in mente il sogno che avevano le famiglie dopo la guerra. C’era la volontà di rinascere, di rifondare l’Italia. Oggi non basta concentrarsi sulla famiglia, che resta la cellula essenziale su cui ricostruire legami. Bisogna sognare in grande, andare oltre l’individualismo, colmare il gap tra le generazioni, ripensare il problema degli anziani. Non si può curare la famiglia senza curare il Paese. La famiglia e il Paese: simul stabunt, simul cadent. Anche la Chiesa non può limitarsi a ribadire un ideale, deve suscitare passioni, trovare parole che scaldino i cuori, anche per ridare alla famiglia il senso della sua missione. Voi demografi fornite dati importanti, ma la politica e le istituzioni religiose non ci riflettono sopra abbastanza. Come influisce su questi temi la crescente presenza di lavoratori stranieri?
GIANPIERO DALLA ZUANNA – In genere gli immigrati vengono da Paesi in cui prevale una concezione della famiglia simile alla nostra. E hanno ringiovanito la popolazione: gli stranieri sono circa 5 milioni, più quelli «naturalizzati» italiani, e la loro età è assai più bassa di quella degli autoctoni. Però non si può pensare che l’immigrazione basti a colmare il deficit demografico, perché il rinnovamento delle generazioni può essere garantito solo dalle nascite. Poi ci sono problemi culturali come la diversa visione dei rapporti uomo-donna o dell’ educazione da impartire ai figli che hanno alcune fasce di immigrati. Sorgono questioni delicate, come le mutilazioni genitali femminili o la maggiore propensione all’aborto delle donne provenienti dall’Est europeo. Poi ci sono le famiglie gay, la procreazione assistita, la richiesta di adozione per i single. Che cosa ne pensate?
ROBERTO VOLPI – Come il divorzio aprì la strada alla parità tra marito e moglie, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, la crisi del matrimonio tradizionale ha dato la stura a novità in gran parte positive, anche se a volte si rischia l’eccesso. Sembra quasi che mentre gli eterosessuali si sposano sempre meno, il matrimonio sia diventato un obiettivo fondamentale per gli omosessuali. Se però si va a verificare quanto è stata utilizzata la legge sulle unioni civili, che considero buona ed equilibrata, si vede che alla fine del 2018 lo avevano fatto circa 9 mila coppie, quasi tutte al Nord e nei grandi centri urbani, una quota esigua dei coniugati. È giusto venire incontro ai bisogni delle piccole minoranze, portatrici spesso di una forte carica ideale, ma si tratta di fenomeni marginali. Il problema cruciale resta come rivitalizzare la famiglia composta da uomo e donna, nei nuovi confini fissati a partire dalla legge sul divorzio. Un tempo le nozze erano un passaggio decisivo verso la piena partecipazione alla vita sociale, oggi non è più così. Per esempio l’età media in cui le donne partoriscono è di due anni inferiore rispetto all’età media in cui si sposano. I figli si fanno sempre più fuori dal matrimonio o prima di esso. Alla famiglia degli anni Cinquanta non si tornerà più, bisogna adottare un approccio pragmatico per adattare le
politiche ai costumi di oggi.
GIANPIERO DALLA ZUANNA – Ci sono diverse norme da cambiare. Per esempio la legge del 1983 riserva l’ adozione con procedura ordinaria solo alle coppie coniugate. Poi alcune sentenze l’ hanno in parte estesa alle coppie di fatto. E mi pare ragionevole concederla alle unioni omosessuali. Si tratta di realtà minoritarie, come osservava Volpi, ma che meritano di essere tutelate, tenendo conto di tutti i diritti in gioco, specie di quelli dei soggetti più deboli. Un altro tema è il ricorso alla procreazione assistita, attraverso la quale nascono 12 mila bambini ogni anno, circa il 3 per cento. Se si considera che i tentativi riusciti sono una minoranza, è un fenomeno che coinvolge un numero di coppie assai significativo, regolato dalla legge 40 del 2004, poi anch’essa modificata da sentenze delle Corti. Ma la questione avrebbe meno rilievo se l’ età media a cui le donne partoriscono per la prima volta non fosse così alta, intorno ai 31 anni, di fatto in contrasto con la biologia umana. E qui torniamo al problema di consentire ai giovani un avvio più precoce della loro vita lavorativa e riproduttiva, due aspetti strettamente legati.
VINCENZO PAGLIA – Per la Chiesa la famiglia, formata da un uomo e una donna con dei figli, resta il fondamento del piano di Dio sull’umanità. Una visione che è stata condivisa per molti secoli anche dalla cultura laica e dalle grandi religioni mondiali. Colpisce che oggi persone dello stesso sesso legate da una relazione affettiva pensino alla famiglia quale forma della loro convivenza. Credo comunque che rivendicare una perfetta simmetria (compreso il nome) porti alla perdita del senso sia della famiglia sia delle altre relazioni, vista la discriminante della differenza sessuale e la connessa generazione. Altro discorso riguarda la regolazione da parte dell’ autorità civile circa convivenze di natura non famigliare e la doverosa lotta contro ogni odiosa discriminazione sulla base dell’ orientamento sessuale.