Gilfredo Marengo: “La Chiesa non può più pensare alle famiglie in termini ideali”

di Vittoria Prisciandaro

«Rispetto al passato oggi è più faticoso fare famiglia: sono aumentati i problemi, ma soprattutto si affrontano da soli».
Monsignor Gilfredo Marengo, 65 anni, presbitero della diocesi di La Spezia, Sarzana e Brugnato, è vicepreside del Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia, dove insegna Antropologia teologica.
È stato tra i primi studenti dell’Istituto voluto da papa Wojtyla nel 1981, e rinnovato da papa Francesco nel 2017 con il motu proprio Summa familiae cura.
«Durante la pandemia», dice Marengo, «ci siamo resi conto che la famiglia è una realtà da cui tutti si aspettano molto. Nel nostro tempo, pur in uno scenario problematico, si riconosce che ogni relazione affettiva tende a generare una forma di legami stabili. Semmai oggi il rischio maggiore è il diffondersi sempre più della famiglia nucleare, con la conseguente perdita dei rapporti intergenerazionali e quelli tra famiglie. Qui la missione della Chiesa deve riscoprire un fattore decisivo: l’appartenenza alla vita della comunità ecclesiale può creare le condizioni per superare il rischio di una vita familiare “isolata” e autoreferenziale in cui i problemi e le difficoltà, che sempre possono accadere, diventano fattori di crisi proprio perché vengono vissuti nella solitudine».

Dopo Amoris laetitia come la pastorale a 360 gradi si sta muovendo?

«Dove si è investito in positivo sulle nuove provocazioni, l’esortazione apostolica ha portato frutti: superare una pastorale familiare basata su un modello ideale di famiglia, “garantito” dottrinalmente, da cui dedurre una serie di norme morali. Uscire da questo modello ha favorito una capacità di incontro e di accoglienza anche di situazioni, talvolta complicate, presenti nel tessuto familiare in tutto il mondo. La grande domanda è: che cosa vuol dire fare famiglia partendo dalla fede? Prima ancora di chiedere l’adesione a un modello, questa è una domanda sulla posizione della persona. Il discrimine tra due coppie che si amano, una cristiana e l’altra no, è la posizione da cui partono, ovvero la fede, concretamente vissuta nell’appartenenza alla comunità cristiana, nella forma del sacramento. Infatti Amoris laetitia, in maniera assolutamente originale, sviluppa la riflessione sull’amore a partire dall’inno alla carità di san Paolo».

Ai Sinodi è venuta fuori tutta la complessità del tema nella sua diversità culturale. Come il vostro Istituto accompagna le diverse Chiese locali?

«Amoris laetitia prende atto delle circostanze reali in cui la famiglia vive: viene favorita una posizione dialogica che invita a incontrare  tutti, valorizzare tutto quello che c’è di buono e me”ere in gioco il di più che la fede offre, nella consapevolezza che questa è una proposta buona per tutti gli uomini e le donne del nostro tempo. Le circostanze storiche, le culture in cui il cristianesimo vive, non sono mai un’obiezione all’annuncio  cristiano, ma sono la condizione in cui questo annuncio è chiamato a porsi e a essere fecondo».

Come guardare allora alle situazioni più complesse, penso alle famiglie di coppie dello stesso sesso e all’annoso tema dei divorziati risposati…

«L’esperienza dell’amore umano è sempre drammatica e genera ferite che la Chiesa ha il compito di curare. Proprio perché non dobbiamo inseguire la formazione di una famiglia “ideale”, occorre farsi carico dell’umano così come vive. Tutte le varie e strane forme di famiglie che vediamo intorno a noi non sono sempre in sintonia con la nostra sensibilità: gli equivoci sono evidenti, non vanno sottaciuti, ma senza contrapporre due mondi “l’un contro l’altro armati”. Il nodo decisivo non è una generica volontà di “trasgressione” che alimenta tante forme equivoche di relazioni familiari; si tratta piuttosto di mettere in crisi la pretesa dell’uomo del nostro tempo di essere fine a se stesso, come evoca bene lo slogan: “L’uomo è il suo stesso esperimento”. Sulla cura dei divorziati credo che in questi anni, in maniera non omogenea, ma con molti punti di eccellenza, tanti episcopati hanno preso sul serio la provocazione di Amoris laetitia e stanno immaginando percorsi fruttuosi. Tenendo conto che sono situazioni molto diffuse, dalle  quali non possiamo non farci carico, almeno perché coinvolgono drammaticamente molti uomini e donne che partecipano delle nostre comunità».

(da Jesus di agosto 2020)

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