Le parole che servono per case sulla roccia
di Pierangelo Sequeri
«State in casa!». La maggior parte di noi, persino sorprendentemente, sta facendo del proprio meglio, per alleggerire il peso dell’isolamento forzato. E ci commuove vedere che cosa ci inventiamo, per aiutarci, da casa a casa. Rimane il fatto che rischiano di finire le scorte d’ossigeno (e non solo) anche lì. Stiamo scoprendo, con un’evidenza fino a ieri del tutto impensata, che quelle che immaginiamo come “le gioie della famiglia”, in realtà, dipendono strettamente dalla concretezza e dalla qualità dei rapporti che abbiamo con tutto ciò che “sta fuori di casa”.
La mediazione famigliare della socialità umana è ancora più indispensabile per i poveri e i soli: se non è sostenuta a vantaggio di tutti, alla lunga non si salva nessuno. Imparare ad aggirare l’ostacolo, accumulando riserve sociali di beni simbolici e relazionali dimenticati, da rendere più normali per la vita di “dopo”, è il nostro impegno irrinunciabile di “adesso”. Quando Gesù riprende amabilmente Marta, indaffarata nell’economia della casa non vuole certo mortificare la sua dedizione per il nutrimento (Luca 10, 41–42). Dio nutre i passeri e Gesù moltiplica i pani, figurati! Semplicemente, Gesù ricorda a tutti che l’apertura della nostra anima all’amore del prossimo, che è l’urgenza di Dio, è la vera chiave che apre le nostre case a tutto il resto. Le famiglie non sono certamente interlocutori determinanti, nell’attuale sistema della governance occidentale.
La stessa architettura moderna, emblematicamente, quasi senza che ce ne accorgessimo, ha avuto cura di ripulire ogni segno visibile dell’habitat familiare, di cui sono fatte le connessioni veramente vitali della città dell’uomo. Un’immensa città–Bureau è il sogno della nostra città–Babele. Dal di fuori, appaiono loculi anonimi, che occultano l’immenso lavoro della generazione, degli affetti, dell’apprendimento e dell’interiorità, della scoperta del mondo e dell’iniziazione alla vita che rendono umano l’abitare. Ora che le piazze e i mercati sono vuoti, le case appaiono ancora più insignificanti nella loro indifferenza umana: segni di vita arrivano solo attraverso il termografo, come in Star Trek.
Ci sono case costruite sulla roccia, predisposte per sostenere, ricorda Gesù, e case costruite sulla sabbia, che non reggono neppure i loro abitanti (Matteo 7, 24–27). Cemento armato a vista, acciaio e cristalli, superfici lisce come uno specchio e pareti espressive come termometri, non consolidano niente. I materiali fondamentali per la costruzione della casa – della famiglia, della comunità, della società umana – sono le parole che scaldano l’anima. Dio lo sa meglio di noi, e le donne lo sanno meglio di tutti. «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Matteo 4, 4). “Fare cose” – uomini e case – con le parole, attingendo alle parole più antiche e più sacre della sapienza della vita e delle promesse dell’amore, è un’arte che dovremo apprendere di nuovo, con più convinzione.
Dovremo aprire una campagna di riabilitazione della voce: la lettura mentale, e per immagini, ci ha rammollito il cervello e i sensi. Imparare a parlare bene, a leggere bene, a raccontare bene. Come si allenano i muscoli dello spirito, che supera le distanze fisiche e disegna reti affettive, se i ragazzi non riprendono confidenza con la fisicità del racconto, la modulazione dei toni, l’incanto di un testo? I ragazzi non sanno più leggere ad alta voce, e gran parte del nutrimento di cui vive una comunità umana di affetti e di destino – non solo grida e mugugni – va perso. Proprio nel momento in cui ce ne sarebbe più bisogno.