Il matrimonio è sacramento. Non solo contratto, non solo etica
di Gilfredo Marengo
Impegnarsi a una rinnovata riflessione sul decreto Tametsi del concilio di Trento (1563) non è scelta di raffinata erudizione per addetti ai lavori. Questo documento, emanato per «riformare il sacramento del matrimonio», ha fissato fino ad oggi non solo un quadro normativo, ma anche una comprensione di questo sacramento che merita di essere riletta criticamente, soprattutto tenendo conto delle provocazioni che l’attuale contesto sociale pone alla vita della chiesa e alla sua azione pastorale.
La decisione di obbligare i cattolici alla “forma canonica” della celebrazione del matrimonio (presenza del parroco e dei testimoni), pena la sua invalidità, rispondeva a due istanze: combattere la prassi dei matrimoni clandestini e rispondere alla negazione del matrimonio come sacramento da parte di Lutero in cui il concilio vide messa radicalmente in discussione la giurisdizione della Chiesa che da secoli vi esercitava un indiscusso monopolio.
Per questi motivi ci si concentrò a rivendicare l’esclusiva competenza della Chiesa cattolica per quanto riguardava il suo carattere pubblico e istituzionale.
Ne conseguì un significativo processo di clericalizzazione e una forte sacralizzazione del matrimonio: lo si trasformò progressivamente da istituto della società custodito e “benedetto” dalla Chiesa a un atto sacro amministrato dal clero, introducendo un’obiettiva novità in paragone alla prassi e alle consuetudini dei secoli precedenti. Non era più sufficiente il consenso degli sposi, ma si imponeva una precisa modalità con cui esprimerlo: in forma pubblica, davanti a testimoni e al parroco, la cui presenza poteva essere anche costretta con la forza o l’inganno, come ricorda il celebre episodio dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni (che non era un matrimonio “clandestino” come spesso si dice, ma esattamente l’esito delle norme dettate dal Tametsi contro quel genere di unione).
È singolare che tale dinamica non abbia accompagnato a mettere a fuoco lo specifico “sacramentale” del matrimonio. La decisiva insistenza sull’identificazione del contratto col sacramento si è coniugata con l’enfasi sul fatto che il matrimonio fosse istituzionalmente pre-cristiano e per natura costituito di tutti i suoi elementi fondamentali (i tradizionali tria bona, unità, indissolubilità, fecondità). Per questi motivi restava alla Chiesa solamente di custodirli, facendosi interprete e garante dei principi della legge naturale e presentando la grazia del sacramento come adiutorium per gli sposi cristiani a conformarsi ai dettami di quella medesima legge che faceva tutt’uno con la dimensione contrattuale del matrimonio medesimo.
Questo modo di procedere è rimasto operante fino quasi ai nostri giorni. Basta pensare ai modi con cui per lungo tempo la pastorale familiare ha prodotto soprattutto un forte investimento sulla preparazione al matrimonio, giustificato dalla presa d’atto di un cambio di fisionomia della società il cui tratto più caratteristico era indicato nel «fenomeno della secolarizzazione»: si doveva ritenere conclusa la stagione in cui «la quasi totalità dei cittadini e delle istituzioni accettava l’ispirazione cristiana della vita» (Evangelizzazione e sacramento del matrimonio, 1975).
L’investimento sulla “preparazione” era dunque motivato dall’ampliarsi del fenomeno della secolarizzazione, all’origine della progressiva scomparsa di una cristianità di tradizione, in un contesto segnato da una generale messa in discussione delle “istituzioni” nella quale era coinvolto anche l’istituto del matrimonio.
Alla luce di queste valutazioni la pastorale familiare ha investito soprattutto in due direzioni: assicurarsi che i futuri sposi fossero consapevoli delle condizioni di validità del matrimonio e guidare a pratiche virtuose della regolazione delle nascite, alla luce dei criteri fissati dall’enciclica Humanae vita.
In entrambi i casi, l’accento cadeva ancora sui paradigmi di una comprensione “naturale” dell’amore e del matrimonio, valorizzata in quanto universalmente condivisibile: la Chiesa – investendo su di essa – si presentava come il soggetto capace di custodirne la verità e renderne possibile una piena attuazione.
Un percorso di ricerca come quello iniziato in questi giorni che vede all’opera un’indispensabile prospettiva interdisciplinare, storica, giuridica e teologica, può aiutare a collocare nel suo tempo l’autorevole intervento tridentino, coglierne il valore e, insieme, accompagnare la riflessione ecclesiale a congedarsi da alcune delle sue conseguenze che – va riconosciuto con franchezza – non hanno aiutato la vita della Chiesa a mettere a fuoco adeguatamente una fisionomia compiuta del vangelo della famiglia.
Si tratta innanzitutto di correggere un’evidente riduzione all’ambito del diritto e della morale che, per secoli, sono stati considerati lo spazio privilegiato in cui collocare la riflessione e la cura pastorale degli sposi e delle famiglie.
Proprio in questi giorni Papa Francesco ha dedicato una catechesi allo «Lo Spirito Santo e il sacramento del matrimonio» e concludendo ha affermato «Non sarebbe male, perciò se, accanto alle informazioni di natura giuridica, psicologica e morale che si danno, nella preparazione dei fidanzati al matrimonio si approfondisse questa preparazione “spirituale”, lo Spirito Santo che fa l’unità. “Tra moglie e marito non mettere il dito”, dice un proverbio italiano. C’è invece un “dito” da mettere tra moglie e marito, ed è proprio il “dito di Dio”: cioè lo Spirito Santo!» (Udienza del 23 ottobre).
Quando gli sposi celebrano (come ministri) il sacramento del loro matrimonio non si limitano infatti a sancire in maniera definitiva l’intenzione di vivere per sempre la loro relazione di amore. Essi assumono questa decisione “nella fede”: qui si deve attingere lo specifico del matrimonio come sacramento. Esso non individua un matrimonio “differente” da quello che possono vivere anche gli uomini e le donne non credenti (fedele, indissolubile e fecondo), ma piuttosto specifica una modalità di vivere quella singolare relazione uomo-donna: secondo la fede.
Non si tratta, dunque, di archiviare acriticamente l’insegnamento del Tametsi, ma semmai di valorizzarlo avendo cura di mettere in luce che il gesto del consenso tra i coniugi possiede nel sacramento una dimensione che va ben oltre il suo carattere contrattuale, senza per questo negarne l’esistenza. L’agire di Cristo nella vita di coloro che si sposano (grazia sacramentale) dona loro la possibilità di fare esperienza – nell’amore per il proprio amato – dello stesso amore di Cristo. Ciò accade unicamente in forza della volontà graziosa di Gesù che ha fissato (istituito) nel libero consegnarsi amoroso degli sposi il luogo che manifesta e rende possibile partecipare all’amore di Cristo per la Sua Sposa.