Teologia e famiglia, dove si va?

di Marcello Neri

Una delle evidenze più trasparenti dei vangeli è che per Gesù la materia della vita quotidiana degli uomini e delle donne è tutto quello che serve per dire di Dio e mettere in circolo, in quei medesimi vissuti, l’esperienza calorosa di Lui che egli vive in ogni fibra del suo corpo. Ancor di più, è proprio intorno alla materia della quotidianità umana che Gesù imbastisce l’architettura stessa del Regno.

Se guardiamo alla condizione odierna della teologia, che è sempre un indice significativo di quella della Chiesa nel suo complesso, ci accorgiamo che duemila anni di cristianesimo, e soprattutto il mito di una società costruita sulle coordinate del cattolicesimo, ha fatto tutto il possibile per oscurare questa cristallina evidenza evangelica. Davanti a essa, la teologia denota non solo un certo imbarazzo, ma anche e soprattutto una scoraggiante incapacità di maneggiarla a dovere.

Qui la responsabilità, o colpa, è solamente della teologia – soprattutto oggi, dove le generazioni più giovani guardano con la medesima indifferenza al contro-mito del racconto illuminista (che ha forse meno chierici di quello clericale). E qui dobbiamo rendere onore a esse: la loro indifferenza non è menefreghismo, né tantomeno opposizione preconcetta; si tratta piuttosto di vedere se una pretesa di visione e organizzazione del vivere umano è capace della prova della quotidianità e delle loro aspirazioni più sincere (e ne hanno molte di più di quanto noi si sia disposti di concedere loro).

L’irrilevanza pubblica del discorso teologico è dovuta in larga parte a cause endogene, da un lato, e agli ultimi sgoccioli della completa istituzionalizzazione della fede con cui le Chiese cristiane pensarono di fronteggiare la pretesa dello Stato moderno di totalizzare il vissuto dei suoi cittadini, dall’altro. Per dirla con le parole schiette di un prete militante: «Non è necessario uscire come ‘Chiesa in uscita’, perché, da sempre, anche se non ce ne rendiamo conto, siamo ‘fuori’, nell’unica città, nell’unica storia, nell’unica sacra corporeità dei sofferenti, fratelli e sorelle del Crocefisso, che vince la morte e i suoi scagnozzi» (don Flavio Lazzarin).

Papa Francesco fa parte delle sorelle e fratelli nella fede forgiati da questa tempra, ed è quasi tenero nella pazienza instancabile con cui ci rammemora che ci siamo accampati tutti nel posto sbagliato, trasfor-mando l’apparato ecclesiale nell’idolo che rende irrilevante il Signore. L’indifferenza a Gesù, prima di essere rivolta come accusa al nostro tempo e alle generazioni più giovani, dovrebbe essere stanata dentro le mura di casa.

Se non fossimo indifferenti a Gesù, saremmo esattamente dove lui è – e con ciò cesserebbe la lamentazione per l’irrilevanza della Chiesa e per quella ancora maggiore del discorso teologico. Ma siamo altrove, tutti pensando di essere nel posto giusto. Anche le ali più avanzate della teologia occidentale sembrano essere drammaticamente arretrate rispetto alla realtà quotidiana del tempo. Basti pensare alla spavalderia con cui si vede nell’introiezione ecclesiale delle procedure democratiche la panacea di tutti i mali odierni della Chiesa. Farlo in un tempo in cui le nostre democrazie non sono solo in crisi, ma stanno inesorabilmente uscendo da se stesse per abbozzare versioni digeribili di nuovi totalitarismi, mi sembra essere cosa semplicemente ingenua.

Non sarebbe più corrispondente al Vangelo mettere mano a una compiuta politica teologica, che appronti l’abbecedario minimo per una resistenza umanistica davanti alle nuove pretese di totalizzazione dell’umano ridotto a funzione esternalizzata delle potenze che ci soggiogano tutti? Possibile che a partire dalla critica evangelica del potere e del dominio non riusciamo a dire una parola sulla perversità dell’assetto postdemocratico in cui versa il discorso pubblico odierno? Non ci scuote le viscere vedere che la politica oramai non è più negoziazione fra le molte diversità del plurale della socialità umana, ma rampante affermazione di una parte contro tutti gli altri (e, nel caso fosse la nostra, la cosa ci andrebbe benissimo)?

Con la nostra inerzia gliela abbiamo proprio strappata fuori a papa Francesco la Fratelli tutti – che aveva già detta tutta ben prima di scriverla. Rispetto all’enciclica, la famiglia è una figura liminale estremamente intrigante. Perché non è mai tutta solo da una parte – sia quella della formulazione chiara della dottrina o quella del marasma dei vissuti che desiderano arrivare a sera portando con sé un briciolo di gioia che renda possibile iniziare una nuova giornata. La famiglia come istituto, civile ben prima che religioso, è sicuramente importante e troppo trascurata dalle politiche e dal dibattito pubblico odierni; ma non esaurisce tutto il discorso, in primo luogo ecclesiale e poi civile, sulle pratiche di affetti sinceri che si spendono per dare una casa alle nostre vite.

Chissà che andando a guardare negli incroci di queste dialettiche, tra figure istituite e non delle relazioni che abitiamo come la dimora che ci custodisce nella vita, tra il linguaggio dei vissuti e quello del diritto, tra vocabolario culturale e parole della fede, che vanno salvate a ogni costo nella loro tensionalità per sottrarle così a ogni pretesa di monolinguismo ecclesiale e civile, non ci siano tesori preziosi da scovare capaci di ridare un qualche aggancio di realtà all’asfittico discorso teologico. Andiamo ad abitare davvero le prove del quotidiano con il nostro logos, e diamo lì misura di noi, forse così riusciremo ad articolare una parola, e a raccontare una storia, che i nostri giovani ascolteranno perché sentiranno essere rivolta alle loro vite (e non a quello che noi pensiamo che esse dovrebbero essere). Che qualcosa del genere si possa fare in un Istituto pontificio, come il ‘Giovanni Paolo II‘, ha il gusto della buona notizia.