Figli adottati, figli biologici. Un lessico da rinnovare
di Maurizio Chiodi
Il nucleo dell’adozione è costituito, prima che dalla coppia e dalla famiglia che accoglie, dal figlio che viene accolto. È lui il protagonista di tutto il processo. La sua storia, però, comincia con l’abbandono da parte di coloro che, un tempo, lo hanno messo al mondo.
Di chi è figlio un bambino che viene abbandonato dai suoi genitori? È figlio di coloro che l’hanno generato o della coppia che l’ha adottato? Nel primo caso, il corpo varrebbe più delle relazioni e sarebbe separato da esse, ridotto a mero corpo biologico, e nel secondo si porrebbe la questione del rapporto tra le relazioni e il corpo, come se contassero solo le relazioni e il corpo potesse essere sottovalutato. Nell’adozione internazionale, poi, queste domande si intersecano con le differenze culturali tra i genitori che hanno abbandonato e quelli che hanno accolto. La mia convinzione è che, per pensare la ricca esperienza di un figlio adottato, è necessario non separare né giustapporre, ma connettere il corpo proprio, la rete delle relazioni e la cultura.
Per comprendere il rapporto di un figlio con i genitori che lo hanno abbandonato, è necessario interpretare più profondamente l’esperienza dell’essere abbandonati. Tra i genitori che abbandonano e il figlio abbandonato si dà un legame ineludibile e incancellabile, perché è segnato dal corpo vissuto, il corpo proprio.
“Tu non hai idea – mi diceva una volta una figlia adottata, divenuta poi madre adottiva – che cosa significhi essere abbandonati da chi ti ha generato. Ti senti una schifezza …”.
L’abbandono è un’esperienza difficile, anzi traumatica, ma ineludibile, perché ha a che vedere con le proprie origini: l’inizio della propria storia è legato a coloro che stanno all’origine della propria vita.
Anche al di là dell’adozione, la vicenda umana ci insegna che i figli “biologici” possono essere trascurati, poco o nulla amati, addirittura abbandonati e rifiutati – come avviene in modo apparentemente silenzioso ma in realtà clamoroso nell’aborto – , insomma possono non diventare “figli propri”. Questo autentico dramma ci rivela che nell’adozione si nasconde un “terzo” attore, oltre il figlio adottato e la coppia adottante: sono i genitori che hanno abbandonato. Non è un’ovvietà dire che un figlio adottato anzitutto è un figlio abbandonato da chi l’ha generato e messo al mondo. Così, l’abbandono, che tocca la carne, è un evento di relazione nel quale si nasconde un doppio profilo: esso infatti è contemporaneamente agito da chi abbandona e patito o subìto da chi viene abbandonato.
Dal punto di vista di chi abbandona, dobbiamo mettere in evidenza che, per quanto rimanga drammatico negli effetti, l’abbandono non è necessariamente una fuga, un alibi o una delega: ci sono infatti situazioni, seppure molto rare, in cui una donna intenzionata ad abortire decide invece di “lasciare” il figlio in adozione – questa è una fattispecie esplicitamente prevista nella legge italiana – e ci sono anche casi in cui gravi problemi personali impediscono di assumere la responsabilità materna o paterna. In situazioni di questo tipo, l’abbandono può diventare perfino un atto di responsabilità se non addirittura un dono! Comunque sia, in moltissimi casi, questo “terzo” è effettivamente nascosto: spesso non si sa nulla della madre e ancor meno del padre, perché se ne sono perse le tracce e sono spariti. Crescendo, però, molti figli adottati vanno alla ricerca della madre – meno del padre – che li ha generati, come a voler svelare a se stessi la propria origine. Si tratta di un desiderio da ascoltare – oltre che di un diritto da garantire! – , pur essendo spesso impossibile da esaudire.
Dal punto di vista di chi lo patisce, invece, l’abbandono rimane sempre una ferita, il ricordo di una relazione spezzata, una promessa tradita, un’ingiustizia subìta. Spesso l’abbandono si collega alla nostalgia – agrodolce – di una relazione preziosa ma irrimediabilmente perduta che, però, continua a fare parte della propria storia, alimentando la certezza di un legame alla cui bontà si continua ostinatamente a credere. Questi sentimenti, pure così diversi, e spesso compresenti, hanno la forza della carne, perché il corpo vissuto “ha le sue ragioni” Sull’idea del corpo come «una grande ragione» che chiede di essere ascoltata, si vedano le intense pagine di F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it. di M. Montinari, in G. Colli M. Montinari, Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, t. I, Adelphi, Milano 1965 [IV ed. 1986], soprattutto 34-35. . Esse valgono per tutti, a qualunque età avvenga l’abbandono, perché la ferita si incide inevitabilmente nella carne viva della propria storia.
In ogni caso, l’esperienza dell’abbandono di un figlio, che è stato generato e messo al mondo, conferma che non basta il bios per dire che quello è nostro figlio. L’abbandono si incide nella carne, nel corpo vissuto, e dice di una relazione spezzata, non più voluta – forse non mai voluta? – , così come l’accoglienza adottiva dice di una relazione trovata che, anch’essa, tocca l’esperienza vissuta del sé. Tutto questo ci chiede di indagare più a fondo non solo che cosa riveli l’atto adottivo ma, ancor più, chi sia un figlio, simpliciter.
A proposito del figlio adottato, soprattutto la coppia che accoglie si esprime spesso con un linguaggio che appare rivelatore e sintomatico: i figli adottati vengono distinti da quelli “biologici” e, soprattutto per raccontare ai figli adottivi stessi, quando ancora sono piccoli, il modo in cui sono arrivati, si distinguono i “figli della pancia” dai “figli del cuore”. Il lessico rivela anzitutto un curioso imbarazzo: come chiamare i figli non adottati? Non si tratta di una questione meramente formale o nominalistica. In effetti, l’aggettivo biologico, riferito ai propri figli, tradisce una riduzione naturalistico-biologica, che non coglie la profondità della carne, poiché questa non è mai semplicemente un corpo, ma è sempre un corpo “proprio”, un corpo vissuto: un figlio non è semplicemente biologico né è meramente un figlio naturale. Come chiamare, allora, un figlio non generato da sé?
Al di là di questa difficoltà, il lessico rivela che tra figli adottati e figli generati c’è una profonda analogia ma anche una differenza significativa.
La similitudine sta nel “sostantivo” figlio: per un verso infatti, il nostro linguaggio afferma con chiarezza che per quanto rimanga drammatico negli effetti, gli uni e gli altri sono figli. Per altro verso, però, distinguendo due modalità di essere-figli, si riconosce che c’è effettivamente una differenza tra figli biologici e figli adottati, pur non arrivando a dire che i figli adottati non sono “figli propri”. I figli adottivi non sono semplicemente figli, ma sono adottati – hanno una storia che viene “da lontano” –. Allora, sono o non sono figli? Non dobbiamo nasconderlo: molti – forse i più – pensano che essi siano figli soltanto a metà, più per necessità che per virtù propria. Se questo fosse vero, l’adozione sarebbe un ripiego che non può aspirare alla perfezione del modello, un “restauro” che rimedia ad un danno, un marchio incancellabile e uno stigma, che rimane per sempre in chi viene adottato. Chiunque ha vissuto nella sua carne l’esperienza adottiva, sa che queste parole sono superficiali e addirittura false, anche nelle storie più drammatiche e difficili.
Questi interrogativi ci chiedono di pensare fino in fondo il senso dell’accoglienza e dell’ospitalità che accade nell’atto adottivo. Nella storia di un figlio abbandonato, che viene accolto da una coppia e da una famiglia, si realizza un’autentica svolta, un vero e proprio tornante, che apre ad un nuovo orizzonte, carico di attesa e di speranza, e allo stesso tempo di paure e di difficoltà. Questa ambivalenza è la sfida bella e difficile dischiusa da tutte le promesse e anche dall’accoglienza adottiva.
Quando un figlio viene adottato, al di là della (antica) relazione spezzata – con l’abbandono, egli non è più figlio – si annuncia l’inizio di una nuova relazione, che però non può cancellare la prima, come se la generazione non fosse esistita.
Estratto dell’intervento al convegno “Adozione e famiglia accogliente” pubblicato su “Avvenire” domenica 11 dicembre 2022.