Un nuovo bisogno della famiglia che deve essere affrontato con urgenza

di Philippe Bordeyne

Nel rivolgermi solennemente alla comunità accademica dell’Istituto Giovanni Paolo II per la prima volta come Preside, mi sia permesso di iniziare con un breve accenno personale.

L’annuncio della mia nomina ha suscitato una varietà di commenti da parte degli amici. Alcuni si sono congratulati calorosamente con me impressionati dall’alone di mistero che avvolge ogni chiamata verso la Città Eterna, accresciuto dal fatto di essere chiamato a dirigere un Istituto Pontificio. Altri, presumendo di conoscere la situazione dell’Istituto, mi hanno definito coraggioso. Da parte mia, ho cercato di prepararmi interiormente al grande cambiamento di vita che comporta questo trasferimento a Roma: imparare una nuova lingua, il cambiamento delle abitudini alimentari e delle relazioni con le persone, in breve, la perdita di molti punti di riferimento. Mi sono detto che i cambiamenti che mi si chiedeva di fare erano nulla se paragonati ai cambiamenti che le famiglie stanno subendo nel mondo di oggi, con tutto ciò che questo richiede loro in termini di coraggio, discernimento, senso di adattamento, perseveranza e speranza nel futuro. Mi sono anche detto che il cammino spirituale, che si apriva davanti a me, mi avrebbe messo in sintonia con i cambiamenti nei quali l’Istituto Giovanni Paolo II è stato impegnato in questi anni, sotto la guida luminosa del professor Pierangelo Sequeri.

All’inizio di quest’anno accademico, però, mi rendo conto che questa visione, troppo limitata al mio orizzonte e a quello del nostro Istituto, sottovalutava la portata dei cambiamenti che ci attendono. La crisi sanitaria è l’indicatore di una crisi più profonda che sta avvenendo su scala mondiale. Dovremo affrontarla con calma e coraggio, per almeno due ragioni che hanno a che fare con la missione stessa dell’Istituto. Il primo è che la famiglia è un barometro delle sfide globali. Essa è toccata nel profondo dai grandi shock del nostro tempo: la disoccupazione e la povertà, la migrazione di massa, la rivoluzione digitale, il divario generazionale, il disprezzo della vita umana, la crisi ecologica. La seconda ragione è che la famiglia resiste abbastanza bene in questi tempi burrascosi. Fondata sull’amore sponsale di un uomo e di una donna, alimentata dall’affetto e dal rispetto reciproco tra le generazioni, la famiglia riesce a conservare, contro ogni previsione, spazi di pace e di gioia, di festa, di solidarietà, di gratuità, di ritiro che le permettono di inventare nuovi modi di vivere a beneficio della casa, ma anche di una vita sociale più ampia.

Una tradizione di discernimento evangelico da portare avanti nel tempo

Anche prima dell’isolamento dovuto alla pandemia, Papa Francesco ha mostrato una sorprendente capacità profetica pubblicando la sua lettera apostolica Summa familiae cura, che ha portato alla rifondazione del nostro Istituto nel settembre 2017. Basandosi sullo slancio di discernimento del Sinodo sulla Famiglia, ha indicato che è giunto il momento di affrontare i problemi della famiglia e del matrimonio in modo radicale e globale. Con il nuovo nome dato all’Istituto, intendeva esprimere da un lato che la sua missione avrebbe continuato ad essere principalmente in campo teologico, perché si tratta di attingere alle risorse della fede cristiana nel mondo di oggi, e dall’altro che tale lavoro avrebbe richiesto un dialogo più decisivo con tutte le scienze che si interessano al matrimonio e alla famiglia, con una apertura anche alla diversità delle culture e dei contesti socio-economici. Con questo doppio movimento, il Papa fece del nostro Istituto il pioniere nell’attuazione della Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, che sarebbe stata pubblicata tre mesi dopo e il cui preambolo promuove l’audacia nella proclamazione del kerygma, il dialogo tra le discipline ecclesiastiche e le altre scienze, i conseguenti cambiamenti nel modo di praticare la teologia e la condivisione delle risorse accademiche attraverso il lavoro in rete a livello internazionale.

Allo stesso tempo, decidendo di mantenere il patrocinio di Giovanni Paolo II per il nostro Istituto, Papa Francesco ci ha invitato a custodire la sollecitudine teologica e pastorale del santo papa polacco per il matrimonio e la famiglia. Credo che sia particolarmente utile per noi rileggere l’inizio dell’esortazione apostolica Familiaris consortio e riprenderne lo spirito. In esso, Giovanni Paolo II invitava a mobilitare tutte le risorse della conoscenza per analizzare la situazione attuale e a mostrare discernimento evangelico ascoltando “le richieste e gli appelli dello Spirito che risuonano negli stessi avvenimenti della storia”, per mettere in pratica una comprensione “più profonda dell’inesauribile mistero del matrimonio e della famiglia” (FC 4). Per questo, Giovanni Paolo II auspicava una sana cooperazione tra il senso della fede concesso a tutti i fedeli e il ministero apostolico (FC 5). Francesco si riferisce esplicitamente a FC 4 proprio all’inizio del secondo capitolo di Amoris laetitia, dove analizza il contesto attuale del matrimonio e della famiglia (AL 31).

Il richiamo di questa stretta convergenza di visione tra i Papi Francesco e Giovanni Paolo II non deve fare dimenticare l’insistenza di Papa Francesco nel Summa familiae cura sul fatto che il nostro lavoro accademico sia parte della dinamica ecclesiale di conversione pastorale e trasformazione missionaria, con un’attenzione costante alle ferite dell’umanità. Per prendere la misura delle inflessioni che queste nuove sottolineature richiedono, sarà opportuno ricollocarle nelle linee di forza dell’insegnamento di Papa Francesco, la cui coerenza complessiva apparirà ancora più chiaramente alla luce della sua analisi della pandemia mondiale di Covid-19. Questo è quello che vorrei mostrare ora.

Il cambiamento è inevitabile

Vediamo come le lezioni che il Santo Padre trae dalla pandemia sono particolarmente rilevanti per il nostro Istituto. Il suo libro-intervista con Austen Ivereigh si intitola nella versione francese Un tempo per cambiare, un titolo che, credo, riflette meglio l’aspetto di responsabilità che viene espresso in tutto il libro, mentre il titolo inglese o italiano pone maggiormente l’accento sul percorso spirituale per raggiungere questo obiettivo: Ritorniamo a sognare. La strada verso un futuro migliore[1]. Se Francesco ci invita a “sognare in grande”, è per combattere l’illusione fallace che dopo la crisi sanitaria, potremo tornare a fare le cose come prima. Perché ciò che questa crisi ha rivelato è proprio la fine di un mondo in cui alcuni potevano conseguire i propri interessi individuali ignorando le esigenze degli altri. Colpiti dallo stesso virus, siamo tutti imbarcati nella stessa avventura, nella quale i poveri sono i più colpiti. E lo stesso si può dire del riscaldamento globale, le cui conseguenze si sono manifestate drammaticamente quest’estate: come abitanti dello stesso pianeta, siamo intimamente legati al suo destino. L’opportunità offerta dal confinamento e dalla crisi ecologica sta proprio nel loro potere di manifestare che siamo interdipendenti gli uni dagli altri.

Il Santo Padre ne trae due lezioni principali. In primo luogo, la situazione è troppo grave per privarci della creatività dei più poveri e di coloro che sono “socialmente invisibili”, che meritano il riconoscimento della loro dignità come soggetti attivi nei cambiamenti necessari.[2] In secondo luogo, è necessario generare nuovi processi collettivi all’interno del corpo dell’umanità, assumendo maggiore responsabilità rispetto ai conflitti in modo da raggiungere una sufficiente armonia piuttosto che polarizzazione ed esclusione. Queste due lezioni provengono sia dall’osservazione del presente che dal discernimento evangelico nella tradizione cristiana: la prima si basa sul modo di fare di Gesù, che pone i poveri e gli esclusi al centro della vita sociale, nel solco della tradizione biblica; la seconda si ispira alle pratiche della sinodalità ecclesiale, nata nel momento in cui bisognava risolvere il problema posto dall’integrazione ecclesiale dei gentili nel quadro del concilio di Gerusalemme (Atti 15).

Vorrei ora, in una prospettiva interdisciplinare, mettere in dialogo la diagnosi di Papa Francesco alla luce della fede cristiana con quella posta dal filosofo e sociologo delle scienze Bruno Latour in un libro pubblicato in francese all’inizio di quest’anno: Dove sono? Lezioni dal confinamento per i terrestri[3]. Come Francesco, Latour insiste sulla cura del realismo che il confinamento ha provocato e sul fatto che l’esistenza confinata ci ha reso consapevoli delle interazioni e interdipendenze che segnano strutturalmente la condizione terrestre. Ma mentre Francesco denuncia soprattutto la divisione tra il ricco e il fragile, Latour insiste da un punto di vista epistemologico sul fatto che il lockdown ci ha costretto ad abbandonare la divisione tra materia viva e inerte poiché tutto sulla Terra interagisce con altre entità “terrestri”, sempre con una certa dose di libertà e invenzione. Sta emergendo un nuovo paradigma di responsabilità. L’umanità è costretta a “brancolare” insieme e in modo più unito, “di invenzione in invenzione, di artificio in artificio”[4]. Latour non si accontenta di questa diagnosi epistemologica. È coinvolto personalmente in un movimento associativo che promuove nuove pratiche di discernimento in piccoli gruppi.

Quali opportunità per ripensare la famiglia?

Quindi, per agire responsabilmente nella nostra condizione di “terrestri”, dobbiamo assumere in modo più consapevole le interazioni tra soggetti e oggetti nel lavoro della conoscenza, soggetti e oggetti che si declinano necessariamente sia al singolare che al plurale. Ciò che cerchiamo di sapere sulla Terra e sul nostro futuro comune interpella ognuno di noi personalmente e ci interpella come soggetti singolari a capire meglio e ad agire. Allo stesso tempo, la nostra ricerca di conoscenza ci rende più consapevoli che siamo nella stessa barca e che abbiamo bisogno dell’esperienza e del giudizio degli altri per progredire nell’acquisizione di conoscenze e competenze autentiche. Si devono creare nuovi spazi di prossimità per rendere possibili interazioni reali. In un mondo più evoluto e interconnesso, la formazione non può più accontentarsi di assorbire contenuti, ma deve preparare i soggetti a continuare a imparare insieme e in collegamento tra loro. Nel campo teologico che occupa l’Istituto Giovanni Paolo II, diventa prioritaria una pratica attiva di ascolto e incoraggiamento fraterno delle famiglie, chiamate ad essere soggetti attivi della propria maturazione cristiana, civile e morale. Questo vale anche per le famiglie più povere, le “invisibili”, che gli accademici a volte tendono a trattare solo come oggetti di studio, mentre sono ricche di risorse che l’umanità deve sfruttare meglio[5]. Docenti, studenti, giovani e anziani, famiglie povere e ricche, siamo tutti “terrestri”.

Da questo, emergono nuove vie per pensare alle sfide che la famiglia pone per il futuro dell’umanità. In effetti, essa è il luogo che porta più esplicitamente la questione dell’engendering, che è oggi al centro degli interrogativi degli esseri umani confrontati con l’antropocene, specialmente i giovani in procinto di formare una famiglia. Latour formula la domanda di ognuno di noi nella condizione terrena: “Secondo le mie piccole azioni, accresco o inaridisco i destini di coloro di cui ho beneficiato fino ad ora[6]?” Si tratta di una sfida ad identificare dei luoghi che ci permettano di confrontarci con l’altro in modo concreto e duraturo, senza fuggire in relazioni virtuali o fantasie di onnipotenza. Siamo fortunati che la famiglia rimanga un tale spazio. Tuttavia, questo presuppone che sia costruita su una base di impegno reciproco e di apertura agli altri, ben oltre i confini della famiglia nucleare[7].

Quali criteri per una teologia al servizio delle famiglie?

Abbiamo bisogno di esplorare altri modi di praticare la teologia insieme. Gli studenti dell’Istituto Giovanni Paolo II lo sanno bene, perché sono figli del nostro tempo. Sfortunatamente, accade troppo spesso a posteriori, quando ritornano al campo pastorale, che i nostri studenti registrino un divario tra le conoscenze teoriche che hanno acquisito e le competenze pratiche che ci si aspetta da loro nell’accompagnare individui e famiglie di fronte a situazioni complesse. Per esempio, il primo messaggio che ho ricevuto come nuovo preside da un alunno dell’Istituto conteneva questa eloquente osservazione: “La missione che ho ricevuto per creare un centro diocesano di pastorale familiare [in Togo] mi dà l’opportunità di apprezzare la qualità della formazione ricevuta nel nostro Istituto. Allo stesso tempo, la sfida di questo ministero mi sta già mostrando la necessità di approfondire le conoscenze acquisite”. Se questo ex studente riuscirà a iniziare i suoi studi di dottorato, dovremo essere in grado di offrirgli nuovi metodi di lavoro e di apprendimento in modo che, nel corso della sua ricerca, sia incoraggiato a esporre le proprie convinzioni ai suoi compagni e a ricevere da loro critiche costruttive. Viceversa, i suoi colleghi di studio saranno edificati dalla sua esperienza acquisita nel campo pastorale in Togo. In questo senso, la diversità culturale dei nostri studenti è una ricchezza per l’Istituto, e la sede centrale di Roma potrebbe, ne sono convinto, beneficiare maggiormente delle competenze dei professori delle Sezioni internazionali. Dobbiamo immaginare insieme come renderlo possibile.

Perché l’annuncio cristiano della famiglia sia veramente una buona notizia (AL 1), deve essere animato da uno “sguardo su Gesù”, come ricorda volutamente il titolo del capitolo 3 di Amoris laetitia, che contiene una sintesi dottrinale sul matrimonio e la famiglia. L’espressione “guardare a Gesù” ha un triplice significato. In primo luogo, si tratta di “contemplare” Cristo “che ha dato se stesso fino alla fine”, manifestando così “l’amore infinito del Padre”: questo è il primo volto del kerygma, che ci volge verso il momento storico dell’incarnazione. In secondo luogo, si tratta di “contemplare” questo Cristo “che è vivo tra noi”: questo è il secondo volto del kerygma. Ci rivolge alla continua presenza del Cristo risorto “presente in tante storie d’amore”, e ci esorta a “far scendere il fuoco dello Spirito su tutte le famiglie del mondo”. In terzo luogo, il kerygma impegna coloro che lo proclamano ad entrare nel Regno inaugurato da Cristo, così che i suoi discepoli sono chiamati ad abbracciare “lo stesso sguardo di Gesù” che “guardava con amore e tenerezza le donne e gli uomini che incontrava, accompagnando i loro passi con verità, pazienza e misericordia, mentre annunciava le esigenze del Regno di Dio”. “L’esempio di Gesù è un paradigma per la Chiesa” (AL 64).

Il confinamento degli ultimi mesi ha amplificato e accelerato un fenomeno che avevamo sottovalutato, e cioè che le scelte di vita relative all’esperienza intima del mistero dell’amore umano sono correlate con la visione complessiva di una società del suo futuro e le sue rappresentazioni delle questioni relative alla generazione. Si tratta di mobilitare i temi classici dell’antropologia teologica, che ristabiliscono l’essere umano nella sua dimensione cosmica, dalla quale la morale del corpo, delle relazioni e della sessualità non può essere staccata senza una grave perdita di senso. Inoltre, il desiderio e l’esperienza dell’amore umano non rimanda forse a una più profonda domanda sul senso della vita sulla terra, tradizionalmente trattata nell’iniziazione cristiana? Per questo la teologia del matrimonio merita di essere ricollocata all’interno della teologia del battesimo, non solo per l’organum del sette sacramenti, ma anche per ragioni di teologia fondamentale e di inserimento del Vangelo nelle culture contemporanee.

Infine, bisogna sottolineare che il discernimento che abbiamo appena fatto sul tempo presente ci incoraggia a non limitare l’insegnamento di Francesco sul matrimonio e sulla famiglia alla sola esortazione apostolica Amoris laetitia. Se dovessimo riassumere i punti principali del Santo Padre, potremmo menzionare (1) l’urgenza della missione affidata alla Chiesa di portare la gioia del Vangelo a tutti gli uomini (Evangelii gaudium), (2) il ricordo che le famiglie sono soggetti e non oggetti della missione, per cui è importante chiedersi come vi stiano già partecipando e come potrebbero parteciparvi ancora più attivamente (Amoris laetitia), (3) la necessità che la cura del pianeta, la nostra casa comune, prenda forma nelle culture locali, a partire da quel “gruppo sociale primario” che è la famiglia (Laudato si’), (4) il ruolo primordiale che le famiglie svolgono nella genesi della fraternità universale (Fratelli tutti). Papa Francesco spiega poi che è a livello locale che si forgia “una maggiore capacità di accogliere gli altri” (FT 95), soprattutto nei confronti delle “periferie vicine” (FT 97). È a livello locale che si impara a passare dall’unione affettiva all’azione efficace e coinvolgente, in modo che “l’amicizia sociale inclusiva” (FT 94) sia la leva primaria, la “condizione di possibilità” di una “vera apertura universale”. Così, le famiglie che praticano l’amicizia sociale inclusiva sono lievito prezioso di fraternità, essendo loro stesse motore di trasformazione del tessuto sociale.

La dimensione dell’apprendimento permanente legata alla vita coniugale e familiare dovrebbe essere messa in maggiore evidenza, poiché contribuisce all’attrattiva del matrimonio in un mondo più consapevole della necessità di sperimentare, di tentare, di imparare dalle generazioni passate così come da quelle future[8].

 Quale slancio accademico per l’Istituto Giovanni Paolo II?

Il compito è immenso, ma abbiamo a disposizione la tradizione dell’Istituto e il metodo offerto da Veritatis gaudium. Fin dalla sua fondazione, la missione dell’Istituto è stata quella di diffondere la luce del kerygma evangelico sul matrimonio e la famiglia attraverso la ricerca e l’insegnamento, attraverso una struttura internazionale molto originale. Abbiamo qui due pilastri per attuare i principali orientamenti del preambolo della Veritatis gaudium. Il lavoro collettivo dei docenti dovrà porre maggiore enfasi sul dialogo transdisciplinare tra la teologia e le altre scienze che affrontano i temi del matrimonio e della famiglia. Dovremo inoltre pensare nuovi rapporti all’interno della rete delle sezioni internazionali affinché tutte le nostre risorse locali siano messe maggiormente al servizio di tutto l’Istituto. Sono una ricchezza immensa e sono ansioso di scoprirle. Dovremo anche estendere la nostra rete ad altre istituzioni accademiche, e rispondere adeguatamente alle molte richieste di collaborazione che ci arrivano da diverse parti del mondo. Ricordiamo inoltre che siamo nel cuore dell’anno Amoris laetitia, che ci chiama ad osare nuove iniziative per facilitare, insieme al Dicastero della Famiglia, dei Laici e della Vita, la ricezione dell’Esortazione Apostolica nella pluralità delle culture e delle giovani Chiese.

Per quanto riguarda la sede centrale di Roma, la sua vocazione è quella di lavorare insieme, al servizio del corpo internazionale del nostro Istituto, e di mostrare una famiglia unita e aperta, a immagine dell’oggetto accademico che occupa le nostre energie. Dovremo anche operare all’unisono con il processo preparatorio del sinodo del 2023 sulla sinodalità, discernendo insieme le vie che l’Istituto deve percorrere per rispondere alla sua profonda vocazione, onorando le esigenze formative delle Chiese locali. Nei prossimi mesi dovremo formalizzare le linee chiare di un progetto comune capace di mobilitare l’attenzione di tutti i nostri interlocutori, compresa la generosità dei benefattori. In tutto questo, mi sforzerò di favorire lo spirito di collegialità che è all’origine di ogni istituzione universitaria e rimane la sua fonte permanente di forza, una collegialità che include il corpo docente e gli studenti. La collegialità è una forma di sinodalità, che ci mette in ascolto e alla scuola dello Spirito Santo per vivere la comunione e la missione nella libertà, diversità e creatività.

[1] Pape François, Un temps pour changer. Conversation avec Austen Ivereigh, Flammarion, Parigi 2020; Ritorniamo a sognare. La strada verso un futuro migliore, Conversazione con Austen Ivereigh, Piemme, Casale Monferrato 2020.

[2] Anche se la parola non appare negli scritti di Papa Francesco, l’idea è molto presente, in particolare nella Laudato si’ e in Ritorniamo a sognare. La nozione di invisibilità sociale è sviluppata da due filosofi francesi, che mostrano entrambi la creatività paradossale delle persone rese invisibili dal funzionamento delle società occidentali: G. Le Blanc, L’invisibilité sociale, PUF, Parigi 2009; M. Crépon, Inhumaines conditions. Combattre l’intolérable, Odile Jacob, Parigi 2018. Per un’analisi del loro pensiero in italiano, rimando a: Ph. Bordeyne, “La responsabilità dell’uomo di fronte alla sua natura più incerta”, in Associazione Teologica Italiana, Ripensare l’umano? Neuroscienze, new-media, economia: sfide per la teologia, Glossa, Milano 2021, 327-347.

[3] B. Latour, Où suis-je ? Leçons du confinement à l’usage des terrestres, La Découverte, Paris, 2021.

[4] Latour, Où suis-je ? cit., 139-140.

[5] Come emerge dal rapporto elaborato con la collaborazione delle sessioni internazionali dell’Istituto in Benin, Brasile, India, Italia e Messico, l’analisi della povertà deve tener conto delle risorse relazionali delle famiglie più povere, anche se possono mancare i beni di prima necessità. (Cfr., Family International Monitor, Family and Relational Poverty. Report 2000), UCAM, Murcia 2021.

[6] Latour, Où suis-je ?, cit., 150.

[7] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 89.

[8] V. Rosito, “Eredità e discernimento: la chiamata a un laboratorio pastorale”, in Anthropotes, n. 1 (2021) 59-66.