Curare il cuore delle famiglie ferite. L’impegno della pastorale familiare
di Youssef Abi Zeid
Direttore del Centro Associato di Beirut del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia
Quando si parla di vittime di guerra, si pensa alle donne, ai bambini, agli anziani, ai giovani. Le famiglie sono le prime ad essere toccate nel caso in cui un padre, una madre, un figlio venga ferito o muoia. Ma anche quando, sempre a causa della guerra, le case vengano distrutte, si perda il lavoro e si sia costretti ad affrontare altri drammi. Anche adesso che è scattata la tregua, la sfida della cura pastorale familiare nei territori più difficili del Libano è quindi quella di provvedere ai bisogni di base, quelli materiali, ma allo stesso tempo di non dimenticare quelli morali e spirituali. Quanto più la situazione delle famiglie è difficile, tanto più la pastorale deve trovare strade nuove per cercare di essere loro vicino.
In Libano esiste una rete familiare naturale, quella della famiglia estesa, che ha dimostrato la sua efficacia durante la guerra fra Israele e Hezbollah, e adesso è chiamata ad essere altrettanto presente in queste prime fasi della tregua. In questi mesi quasi tutte le famiglie cristiane sono state costrette a lasciare le loro case e, nella maggior parte dei casi, hanno trovato rifugio da parenti in luoghi più sicuri. Ma in questi spostamenti quasi tutte le famiglie hanno dovuto accettare di dividersi. I nuclei familiari che abitavano in zone sotto costante bombardamento, sono stati costretti a scelte dolorose. C’è chi è rimasto a casa per evitare occupazioni o furti e chi ha raggiunto i parenti in zone più sicure. Spesso ad allontanarsi sono stati anziani e bambini, mentre i giovani sono rimasti a custodire le case. In tutti questi casi il sostegno delle diocesi e delle associazioni caritative cristiane è stato importante per fornire cibo, prodotti per l’igiene, materassi e coperte. Anche conventi e chiese sono stati aperti per ospitare sia famiglie cristiane sia famiglie sciite.
Anche tante famiglie hanno aperto le porte di case a nuclei che erano stati costretti ad allontanarsi dalle zone più a rischio. Una generosità offerta non senza sacrifici. Ospitare vuol dire limitare i propri spazi per accogliere gli altri. E anche rinunciare alle proprie attività.
La presenza della famiglia estesa offre benefici che vanno oltre l’aiuto materiale. Esprime una vicinanza che solleva il morale di un ferito, di chi ha subito un trauma, di chi ha perso un familiare, un lavoro. Ma anche chi piange per il raccolto “bruciato” delle bombe al fosforo che impediscono per anni la crescita delle piante.
È questa la forza della famiglia estesa. Si tratta di una rete che sostiene spiritualmente i propri membri ma anche tutte le altre persone rifugiate. Nella famiglia estesa si può creare un ambiente di preghiera o di lettura delle Scritture per tenere viva la certezza della presenza del Signore e il significato di tutto ciò che è accaduto. Penso a un episodio di cui ho conoscenza diretta. Qualche settimana fa, in una casa libanese semidistrutta dalle bombe, è caduto l’ennesimo razzo. In casa c’erano solo due fratellini di 6 e di 11 anni. Il piccolo ha iniziato a piangere e a tremare. Il più grande che, come hanno raccontato i genitori non prega mai di propria iniziativa, ha preso una coroncina, si è avvicinato al fratellino e l’ha invitato a recitare il Rosario insieme.
Una reazione strana? No, se genitori e figli sono abituati alla preghiera insieme. Si tratta di un piccolo episodio ma fa comprendere il valore dell’educazione alla preghiera in famiglia. Quello che è successo tra fratelli può succedere tra genitori e figli, ma anche fra famiglie apparentate, in una scala più ampia e in circostanze più dure per rinvigorire la fede nel Dio Amore nonostante gli orrori. Pregare insieme, anche sotto i bombardamenti, alimenta la speranza della trasformazione di tutte le perdite in un bene che supera infinitamente il male. Pregare insieme alimenta la carità nell’impegno a servire gli altri nonostante tutti gli ostacoli.
Questa solidarietà può anche accadere fra Chiese locali o parrocchie “gemelle”. Sono tanti gli esempi di vicinanza di cui abbiamo avuto notizia in questi giorni tra le comunità libanesi.
E ora, che la tregua sembra reggere, l’impegno della pastorale familiare è ancora più importante. Bisogna sostenere, anche a distanza, le famiglie che non sono ancora tornate perché le loro case sono state totalmente demolite e stare vicino a quei nuclei familiari che ospitano persone fragili, disabili a causa dei combattimenti, parenti e amici che non sono ancora usciti del trauma. Ma occorre accompagnare anche quelle che sono tornate alle loro case parzialmente distrutte. E chi, se non la Chiesa, deve avviare iniziative per la raccolta di fondi da destinare alla ricostruzione delle case, delle infrastrutture, delle scuole, degli ospedali? È in impegno urgente. Siamo tutti chiamati a un impegno pastorale incessante per invitare i nostri parrocchiani alla partecipazione di celebrazioni sobrie, capaci di suscitare sentimenti di resilienza, senza smettere di curare le ferite e promuovere la purificazione della memoria. Ma proprio in questo momento è essenziale sollecitare in quelle comunità e in quelle famiglie sofferenti e angosciate la spiritualità profetica, regale, sacerdotale, creativa e resiliente, aperta al dialogo e alla coesistenza con le comunità circostanti per costruire un futuro di pace finalmente solido.