Orizzonte sociale e politico

È stata presentata ieri, 26 ottobre, a Roma la seconda edizione della «Caring School – Scuola di formazione su cura e innovazione sociale» del Pontificio istituto teologico “Giovanni Paolo II ” per le scienze del matrimonio e della famiglia, del quale è gran cancelliere l’arcivescovo Vincenzo Paglia. Il corso, che avrà come principale indirizzo tematico la cura di comunità, si svolgerà dal 25 novembre 2023 al 13 aprile 2024 per un totale di sei lezioni. Alla presentazione, dal titolo «Caring e legami sociali. Dalla legge sul caregiver familiare alle buone pratiche», ha partecipato anche Mariella Enoc, già presidente dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, la quale ha sintetizzato per il nostro giornale i contenuti del suo intervento.

di Mariella Enoc

Occuparsi della salute con un approccio olistico richiede di coltivare almeno tre livelli di cura. Il primo consiste nel sapere conoscere e accogliere la propria fragilità per comprendere quella dell’altro. In questo modo anche i gesti più semplici sono terapeutici: ascoltare il bisogno di chi si sente vulnerabile, prendersi la mano in silenzio, guardarsi negli occhi permette a chi è curato e a chi cura di dirsi anche la verità più profonda e a volte più difficile. Tuttavia il luogo della cura non è solamente l’ospedale ma include la comunità, i luoghi relazionali della nostra esistenza, quelli familiari e lavorativi, quelli sociali e politici fino al recupero del “buon vicinato” che ha sempre assicurato comunione e aiuto reciproco.

Poi, come secondo livello, bisogna sempre ricordare che il paziente è una persona prima che un “caso da studiare” o un costo da sostenere del sistema sanitario. Non ci sono scorciatoie: la cura dipende dalla qualità della relazione con chi si ha in cura. La tecnica deve essere al servizio del paziente, ogni operatore sanitario è responsabile davanti alla propria coscienza e al proprio paziente delle scelte fatte. La conoscenza scientifica non basta se non si approfondisce anche l’etica e l’antropologia, senza le quali non si può inquadrare la persona nella sua interezza.

Terzo: occorre perfezionare, attraverso la ricerca scientifica e la formazione continua, una finezza diagnostica e un acume umano per distinguere ciò che può essere curato con la medicina e ciò che invece deve essere sanato interiormente. Lo ribadisco con convinzione: la ricerca scientifica è per la Chiesa una forma di evangelizzazione e di amore, di personalizzazione della medicina e di rigore per la cura. È noto: la sanità cattolica ha attraversato varie stagioni, è stata plasmata da vocazioni antiche e da carismi ancora vivi. Rimane una delle punte d’orgoglio delle missioni della Chiesa nel mondo per servire le fasce povere, deboli e abbandonate delle popolazioni. Come esempio mi limito a ricordare l’ospedale che ho realizzato a Bangui per volere di Papa Francesco.

Tuttavia occorre ripensare la missione oltre ai numeri. Si fatica a capire come sviluppare o recuperare il carisma fondante e il ruolo della sanità cattolica in questa nuova situazione storica nella quale ci troviamo. Se nel pontificato di Francesco il paradigma del samaritano spinge la Chiesa a uscire nel mondo, occorre chiedersi: quali sono i bisogni delle persone ferite e vulnerabili a cui occorre dare risposta?

Esiste una fascia di persone povere di salute, penso per esempio alle disabilità psichiche a cui non si sta rispondendo. Ci sono poi molte persone che non riescono a curarsi perché persino il pagamento di un ticket può costituire un problema; altri hanno difficoltà di accesso ai servizi, altri ancora devono subire lunghissime liste d’attesa. Abbiamo pazienti che hanno bisogno di cure intermedie che oggi non vengono date. La cura della Chiesa come sta riorganizzandosi per rispondere ai bisogni del nostro tempo?

C’è poi un dato sui cui occorre fermarsi e riflettere. Secondo l’Istat il 7,7 per cento della popolazione italiana (oltre 2.800.000 persone) è impegnata ad assistere parenti e figli a motivo della loro fragilità, anzianità, disabilità o per altre patologie. L’esercizio della cura continuativa è la provocazione silente all’interno della società. Per questo sono da appoggiare proposte come quella dell’Istituto Giovanni Paolo II sulla caring school volte a studiare e a promuovere pratiche innovative sia nell’ambito della cura e sia in quello delle sue istituzioni.

Certo, la recente legge delega sul sostegno degli anziani (23 marzo 2023, n. 33) se verrà attuata dovrebbe migliorare l’assistenza, tutelare i caregiver e riconoscere il diritto delle persone anziane alla continuità di vita e di cure presso il proprio domicilio. Tuttavia allo Stato non possiamo chiedere ciò che non può dare. Solamente una corresponsabilità sociale potrà permettere di gestire la cura dei più fragili. Per gli anziani occorre investire su forme abitative che includano forme di coabitazione, case-famiglia e condomini solidali, aperti ai familiari, ai volontari e agli operatori sanitari. Curare l’anziano significa tenere conto anche dei progetti che può realizzare e delle motivazioni interiori, come per esempio curare i nipoti, avere un ruolo nella vita sociale, coltivare interessi. La sanità che cura anche il “perché” vivere permette di vivere fino in fondo la qualità del tempo.

Sulla cura degli anziani la premessa è quella di partire non sul “quanto” vivere ma sul “come” vivere la longevità. Si tratta di accompagnare un processo di vita delicato come un vaso di cristallo. La via da percorrere ha una direzione unica: creare rete nel territorio tra pubblico, privato sociale, privato convenzionato, imprese sociali del terzo settore e volontariato competente. È attraverso un’alleanza di cura che potremo vincere questa silenziosa sfida.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(dall’Osservatore Romano del 27 ottobre 2023)