Famiglie, le buone relazioni uno scudo per il rischio povertà

di Francesco Belletti

Studio del Family international monitor: il benessere familiare non è legato solo a condizioni economiche ma soprattutto alla rete sociale in cui si è inseriti L’Osservatorio internazionale sulla famiglia, promosso dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, dall’Ucam (Università Cattolica Sant’ Antonio di Murcia, Spagna) e dal Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia, Milano), ha recentemente pubblicato il Rapporto 2020 ‘Famiglia e povertà relazionale’, che ha messo a tema il legame tra famiglia, povertà e qualità delle relazioni in dodici Paesi (Benin, Brasile, Cile, Haiti, India, Italia, Kenya, Libano, Messico, Qatar, Spagna, Sud Africa).

Il progetto è nato per rispondere alla preoccupazione di papa Francesco relativa all’istituzione familiare, manifestata soprattutto nella sua Esortazione apostolica Amoris laetitia, nella quale propone la famiglia come risposta di grande valore alle sfide antropologiche, culturali, economiche, politiche e legislative che si pongono nel contesto di un mondo globalizzato. L’aspetto più innovativo di questo Rapporto è aver sottolineato la dimensione multidimensionale della povertà (in sintonia con i più recenti report della World Bank, incentrati proprio sulle dimensioni della povertà non economico-monetarie, come la povertà educativa e culturale), e soprattutto aver messo sotto i riflettori il ruo- lo cruciale che rivestono le relazioni – in primis quelle familiari – nel qualificare il benessere o la vulnerabilità delle persone e delle famiglie.

In particolare l’indagine conferma che le relazioni (fattore e risorsa propria e specifica delle reti familiari) fanno la differenza, e la loro resistenza o fragilità genera esiti molto diversi, a fronti degli stress (interni ed esterni) cui devono far fronte persone e famiglie. In particolare questo vale soprattutto per le famiglie ‘in bilico’, quelle vulnerabili dal punto di vista socio-economico e/o strutturale: la forza delle relazioni familiari è fattore decisivo per restare a galla, e non cadere in povertà o in grave marginalità socioeconomica. A livello macrosociale ed economico, l’attuale modello di sviluppo socio-economico globale ha generato alle forti condizioni di disuguaglianza socioeconomica, in crescita, negli ultimi vent’ anni, praticamente in tutti i contesti nazionali analizzati.

L’Indice di Gini (vedi tabella qui accanto), che cresce al crescere delle disuguaglianze interne di una nazione, segnala forti differenze tra Paese e Paese, con Brasile e Sud Africa con i valori più alti di disuguaglianza sociale (circa 0,60), mentre in altri Paesi, come Italia e Spagna, l’indice è dimezzato – e la disuguaglianza, quindi, molto meno presente. Va aggiunto anche che la recente pandemia ha generato in quasi tutti i Paesi un drammatico aumento della disuguaglianza e quindi dell’indice di Gini, anche in Italia. Di fronte a questo scenario, le politiche pubbliche familiari possono essere cruciali: in primo luogo Servono quindi politiche sussidiarie, di promozione sociale e di empowerment, perché le famiglie siano – e si sentano – legittimate e riconosciute nel loro ruolo sociale, nella loro soggettività, non solo in modo strumentale, come risorse di welfare a basso costo. In secondo luogo è decisivo sostenere le relazioni familiari, la vera risorsa specifica e strategica della famiglia. La società deve intervenire quando le relazioni familiari sono fragili e velenose per i singoli membri, ma è altrettanto importante intervenire, in modo preventivo, a supporto di tali relazioni, riconoscendo e valorizzando così la rete micro-sociale di solidarietà e di cura reciproca che le famiglie sviluppano per i propri membri e nelle comunità locali.

Una terza direttrice prioritaria riguarda la riduzione delle disuguaglianze socio-economiche, gravemente accentuate negli ultimi decenni e che la pandemia ha ulteriormente aggravato. Queste disuguaglianze rimandano ancora a differenze estreme tra Paesi e aree del mondo, come conferma i dati sui redditi pro capite e sulle condizioni di povertà estrema (chi vive con meno di 5,5 dollari al giorno, vedi tabella): si va dall’86% circa del Kenya all’1,8% dell’Italia. Queste differenze fanno sempre più spesso riferimento a disuguaglianze all’interno delle nazioni, tra aree geografiche, tra città-campagna, persino tra zone limitrofe delle stesse città, anche nei Paesi a maggior sviluppo socio-economico – quindi anche nelle nostre città, nelle nostre parrocchie, nelle nostre comunità, dove quartieri marginali e famiglie in difficoltà sono a diretto contatto con zone residenziali di lusso. Va infine ricordato che le politiche di contrasto alla povertà e di riduzione delle disuguaglianze possono e devono assumere una maggiore qualificazione ‘family friendly’, diventando più capaci di sostenere i nuclei con maggiori carichi di cura, contribuendo a prima di tutto a sostenere e valorizzare le loro capacità residue quando sono ancora in gioco, anziché intervenire, solo con sostegni monetari, quando ogni capacità residua è già stata bruciata da sfide insostenibili.

(da Avvenire di domenica 11 luglio)