Abbiamo il diritto di incalzare Dio e chiedere il perché del nostro dolore

di Alberto Bobbio

Ragiona sul cristianesimo, il suo destino e il suo significato. Ragiona sulle invocazioni a Dio e sulla «questione di Dio», preliminare alla forma religiosa e alle istituzioni che la racchiudono. Ragiona sui dubbi di chi chiede una risposta al proprio dramma personale e non riesce sentirla, perché l’audio è disturbato dai rumori di fondo delle ripetizioni catechistiche o del moralismo riduttivo o dell’indulgenza vaga dei buoni sentimenti, sparsa a piene mani anche da onesti predicatori. Monsignor Pierangelo Sequeri insomma spiega qui perché Dio è rilevante nonostante tutto e perché è legittimo incalzarlo con le proprie domande.

Professor Sequeri, la gente continua a chiedersi dov’ è Dio nelle esperienze della propria vita. Non le sembra sorprendente?
«Niente affatto. Anzi è la dimostrazione che l’impianto tradizionale per spiegare che cosa sia la fede, e su quali ragioni la si edifica, non coglie le sollecitazioni che vengono dalla realtà. La teologia dovrebbe riflettere sulla circostanza, cogliere il dato fenomenologico e non solo semplicemente occuparsi dell’ermeneutica, cioè arrovellarsi ad interpretare la realtà secondo principi già acquisiti e stabili».

L’errore dove sta?
«Nel fatto che spesso noi abbiamo servito su un piatto d’argento una sorta di indifferenza quieta nel momento in cui, giustamente preoccupati di non essere dogmatici, presuntuosi e di preservare il mistero di Dio da ogni pretesa razionalistica e di definizione, abbiamo enfatizzato l’idea che di Dio non si può parlare con disinvoltura».

Invece Dio che cos’ è?
«Direi che cosa non é. Non è l’altro assoluto, non è qualcosa di determinato, di cui potremmo parlare solo all’interno di una fede religiosa condivisa. Dio invece va al di là di ogni nostra immaginazione».
Eppure ci hanno insegnato che bisogna fare i conti con il limite della nostra conoscenza ed esperienza «È vero, ma il perimetro qual è? Con Dio si fanno sempre i conti. Diciamolo in un altro modo: il Vangelo si insinua dappertutto. Questa è la fede che ci chiede Gesù, una fede senza limiti della razionalità, del ben detto, del politicamente e teologicamente corretto. La fede di Gesù ha questa curiosa essenza: non ha confini, perché si chiama Regno di Dio, qualcosa che accade anche quando tu dormi e non eserciti totalmente facoltà razionali. A volte accade di pensare a Dio per via di una provocazione, di un’invettiva di qualcuno, di una sollecitazione che nulla ha a che fare con i riti della religione. Una provocazione provoca una domanda: che fa Dio? Che dice Dio? È il modo con cui Dio fa comunque il suo lavoro».

Quale?
«Lo dico con due frasi: riparare la creazione e riscattare il nostro destino. E i segni di questa riparazione e di questo riscatto li vediamo se non guardiamo troppo in alto, come se dovessero scendere con le Tavole della Legge, cioè come segni chiari, ben distinti e organizzati, insomma il moralismo riduttivo; e se non guardiamo troppo in basso, alla punta nel nostro naso, fidandoci solo del nostro limite e della nostra razionalità, della nostra ermeneutica della verità. Al contrario, i segni possono essere miracolosi, come quando si ritrova qualcosa che sembrava definitivamente perduto, irrimediabile, come quando affiorano domande cruciali. È attorno ai segni che ci si gioca tutto».

E il Vangelo che cosa c’entra?

«Uno dei punti decisivi sono le parabole, racconto attraverso i segni. Non sono formule del catechismo, ma insegnano come riconoscere il riscatto, come riparare cose danneggiate, come ritrovare quelle perdute: un figlio ritrovato, una moneta smarrita con cui dovevi comprare il cibo, la perdita di credito sociale, cioè quando uno si sente tagliato fuori e poi capisce che non è vero. Gesù spiega che quando accadono queste cose voi potete nominare Dio con ragione».

È normale, di fronte ai drammi, pensare a Dio?
«È normalissimo, anche se c’è chi liquida la faccenda con supponenza, perché un gruzzoletto di intellettuali ha ritenuto di definirla al limite della superstizione. Ma questa è l’esperienza vera delle persone. Nelle tensioni si apre un orizzonte ulteriore al nostro, che chiamiamo Dio, e si presenta inevitabilmente come una sfida e insieme come un tema di invocazione».

La ragione cosa deve fare in questo caso?
«Essere un po’ più umile e accettare che certe esperienze molto sconvolgenti della vita, ma molto concrete e non mistiche, aprano l’orizzonte dell’adorazione, che altro non significa che porsi la questione di Dio. Lo chiamo silenzio stupefatto di fronte al fatto che, nonostante tutto sembri chiudersi a doppia mandata, si apra un altro orizzonte, magari solo con una domanda: che fa Dio?».

Perché si pone la questione e non ci si rassegna ad accettare il limite?
«Perché non c’è mai un limite né noi possiamo imporlo a Dio. Perché altrimenti i nostri ideali di giustizia, libertà, amore non avrebbero alcun significato. Perché altrimenti l’uomo che sbaglia non sarebbe all’altezza di niente e non potrebbe mai cercare riscatto. Il filosofo Martin Heidegger dice “solo Dio ci può salvare” e non era uno che avesse in grande simpatia il cristianesimo. Quanta gente ripete sempre quelle parole?».

Allora si può dire che Dio sta nei legami, con le cose, le persone, le idee?
«Esattamente. La storia di Gesù è una storia di relazione. Infatti si parla di incarnazione. Io insisto sulla relazione, sui legami per contrastare quella che ritengo una debolezza del concetto prevalente di amore. Amore è diventata una parola universale, molto usata, ma anche molto abusata. Siamo tutti d’accordo sul fatto che Dio è amore. Tuttavia noi, figli dell’epoca romantica, dell’amor cortese, del sentimento, paradossalmente spesso coltiviamo affetti senza legami. Con Dio è diverso, con Dio abbiamo il diritto di cercare risposte decisive sull’amore. Mi spiego. Una donna che perde un bambino per un brutto male ha il diritto di chiedere a Dio perché glielo ha portato via, ha il diritto di inseguirlo, di incalzarlo, ha il diritto come Giobbe di protestare e chiedere perché».

Una lotta con Dio, appunto come Giobbe?
«Sì. Se abbiamo la passione e perfino l’orgoglio per i legami che l’amore crea e non semplicemente un vago sentimento che se ne va quando l’oggetto dell’affetto svanisce e tutto diventa opaco tramutandosi in una tenue nostalgia, con Dio lottiamo e gli chiediamo di condividere la nostra tenacia, gli chiediamo dove sta, con chi sta perché lui ha generato quei legami di cui noi viviamo. Con Dio ci deve essere complicità, perché un legame non si tiene insieme solo per amore, ma per la passione per quell’amore. Nella vita la cosa migliore che possiamo fare è intrecciare legami e non cedere quando si incrinano, abbandonarci alla sorte di quel che è stato è stato. Qui si trova il senso profondo della speranza cristiana».

Gesù come si comporta?
«Al cieco nato, alla madre che ha perso il bambino, a quell’altro messo da parte, al pubblicano che sta in fondo alla Chiesa disprezzato da tutti, dice di non disperare mai, perché dei tuoi legami con ciò che è degno e amabile non ti devi vergognare. Dio ha cura del suo amore, Dio si impegna, Dio onora la nostra tenacia quando disperatamente cerchiamo di non soccombere al colpo inferto per una perdita nei legami».

Ma è difficile declinare bene la frase «Dio è amore». Da una parte c’è il pacifismo e dall’altra la consolazione?
«Sì e il contrappunto non va bene. Dobbiamo sottrarre Dio al sentimentalismo religioso. Gesù nei Vangeli parla di religione soltanto quando gli esperti di religioni lo provocano per chiarire le cose. E allora si occupa di religione, di culto, della legge, del sabato Ma alla gente parla di Dio nelle parabole, diventa interlocutore dei loro legami, quelli che tutti capiscono, la giustizia, i figli perduti Dice: cercate Dio lì, in quei legami e nel riscatto di quei legami. Lo dico sempre ai preti: non stremate la gente con pagine e pagine di catechismo, ma cercate parole significative per i legami che la gente vive e per i quali soffre».

Vuol dire che, nonostante diminuisca la pratica religiosa e aumenti la critica alla Chiesa, la gente cerca ancora il Vangelo?
«Ne sono convintissimo. Ai miei studenti di teologia, quando spiego l’ecclesiologia, dico che la forma della Chiesa è Gesù, i discepoli e la folla. Se mi fermo a Gesù e ai discepoli e lascio fuori la folla, perché le folle danno problemi, si agitano, alzano la voce, pretendono, non possiamo parlare di Chiesa. Gesù non si scandalizza delle folle. Quando il cieco gridava e i discepoli lo esortavano a contenersi, Gesù non fa una piega. Davanti alla cananea che lo sollecitava dicendo: Signore mi pare che anche i cagnolini hanno diritto alla briciole, Gesù si ferma ed esclama: caspita, questa è fede! Voglio dire che la provocazione non dimostra una difficoltà, ma il contrario: è un appello a migliorare ciò che non va. Quello che non va bene è la doppiezza, l’ipocrisia, la falsità. È meglio protestare con Dio perché ti ha preso un figlio, che stare zitti e magari cercare consolazione nel sentimentalismo da quattro soldi di chi ti dice: consolati è diventato un angioletto.
Se protesti Dio ti sta a sentire. Davanti alle devastazioni, gli orrori, i genocidi, l’economia che uccide, tutte cose che restano anche se abbiamo decretato che Dio non esiste o non esiste più, cosa c’è da fare se non protestare e cercare segni per tornare ad avere speranza?».

Quindi credere è anche chiedere, interpellare?
«Certamente. Credere non è riconoscere una verità del sacro, che spesso non sappiamo neppure cosa sia, ma è una bella frase appagante. E dobbiamo smetterla con le formulette sulla Chiesa che comprende tutti, quelle che dicono che siamo tutti missionari e via di seguito. Ai seminaristi dico: ricordatevi delle signore che vi dicono “Padre io ho tre creature da crescere e non ho molto tempo per studiare il catechismo e neppure per venire in chiesa”; ricordatevi che Gesù, finita la predica, mentre i discepoli tiravano un sospiro di sollievo di fronte alle folle sperando che tutti andassero a casa, dice: “No, adesso dobbiamo dar loro da mangiare”. Questa è la differenza tra chi snocciola verità dogmatiche e chi invece, come Gesù, ritiene i legami della vita decisivi. La frattura che va superata è quella tra l’ordine dei linguaggi e l’ordine dei legami. Nel momento i cui le contraddizioni della vita ( perché se qualcuno sta senza lavoro e senza mangiare, qualcun altro, più simile a noi che a Dio, ne porta certamente la responsabilità) ci fanno invocare il nome di Dio affinché si inventi qualcosa, è a quell’invocazione che dobbiamo restare aggrappati. Senza vergognarci, perché nel Padre nostro diciamo, senza tante perifrasi, “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. Dacci e non “scusi”, “se per caso” o frasi più attenuate e gentili».

Perché ha detto così nell’unica preghiera che ha insegnato?
«Perché Gesù è circondato da gente che intimamente protesta per la condizione in cui è cresciuta: il samaritano, il lebbroso, la donna che soffre di emorragia considerata impura e tenuta lontano da tutti Ma si tratta di persone che trasgrediscono la propria condizione nel momento in cui percepiscono che Gesù accetta e dà voce alle loro mute proteste. Fanno un gesto e lo toccano. Lui era venuto proprio per questo. Ed è qui ancora oggi a farsi toccare».