Visioni, letture, narrazioni: la famiglia tra esplorazioni letterarie e rappresentazioni cinematografiche
di Gilfredo Marengo e Riccardo Prandini
Da quando il “dialogo” col mondo è stato collocato al primo posto dell’ordine del giorno della riflessione ecclesiale e dell’agire pastorale, l’interlocutore privilegiato è stato il sapere filosofico, con qualche significativa apertura – in tempi più recenti – alle scienze umane.
Sicuramente minore attenzione è stata prestata all’arte figurativa, alla letteratura, al cinema e alla televisione, se si eccettua un certo, costante allarme per i rischi di una diffusa immoralità, variamente documentata in queste forme di espressione artistica.
Una certa disattenzione al linguaggio della narrazione appare ancor più sorprendente se si tiene conto della centralità che esso possiede nella rivelazione biblica, nel Vecchio e Nuovo Testamento.
Senza entrare nel merito di un esame critico di queste problematiche, è agevole convenire sulla necessità di una maggiore attenzione alle forme espressive della narrazione, ben consapevole che esse – al presente – sono un fattore determinante della formazione della mentalità comune ed insieme il luogo ove è possibile mettere a fuoco i modelli che orientano la sensibilità e l’agire degli uomini e delle donne del tempo presente. Si è giustamente osservato che le “serie” televisive giocato oggi il ruolo che ne passato fu prerogativa del romanzo.
Narrare storie è una delle competenze fondamentali degli esseri umani. Attraverso le storie l’attenzione si rivolge a modelli esemplari di vita, alla comprensione di un presente che sfugge, fino alla proiezione di un futuro con cui si è chiamati a familiarizzare.
La narrazione aiuta l’osservatore a riflettere su aspetti della quotidianità così routinari o eccezionali che necessitano di una pausa, di un pensiero e di una presa di posizione personale. In altri termini: le narrazioni aiutano a elaborare la propria identità, stimolando una riflessione cognitiva e morale che aiuta a dare forma alla propria identificazione mettendosi nei panni dell’altro e immaginando cosa si sarebbe fatto al suo posto.
I vecchi e nuovi mezzi narrativi – romanzi, film, serie televisive – agevolano questa riflessività in modi diversi: in solitudine o in compagnia; mediante riflessioni meditative individuali o la conversazione con amici; con temporalità brevi o molto lunghe.
La famiglia è da sempre uno dei temi privilegiati della narrazione e centro simbolico di dibattiti, spesso sterili e polarizzanti, ma anche capaci di aprire l’immaginazione e accompagnare verso nove “donazioni di senso”.
L’esperienza delle relazioni affettive produce sempre delle “storie” che, in quanto tali, non possono che essere narrate.
Prenderne atto non significa concludere all’impraticabilità di un’istanza veritativa nei confronti di questo livello originario e decisivo di ogni umana esistenza. Si tratta, piuttosto, di prendere atto che una tale istanza non può essere invocata e perseguita in maniera estrinseca al contenuto della storia che si voglia indicare. In altri termini: occorre evitare di leggere le “storie” degli uomini, anche quelle d’amore, trattandole come materiali utili a confermare a posteriori la bontà o meno di principi, teorie, precetti etici che si vogliano difendere o contestare.
Per questi motivi, il corso intende, mediante l’analisi di narrazioni familiari, aiutare gli studenti ad analizzare le storie familiari per comprendere come la società osserva e valuta la famiglia; a utilizzare le narrazioni per riflettere sulle proprie immagini della famiglia; fare chiarezza sui dilemmi e i problemi che oggi riguardano il mondo familiare. Si procederà attraverso una serie di inviti a scrittori, registi, e narratori che si occupano del familiare.
Senza anticiparne i contenuti, può essere utile avanzare almeno uno dei maggiori punti d’interesse su cui si articolerà il corso.
Una conoscenza, anche non particolarmente approfondita, dell’attuale produzione letteraria, cinematografica e televisiva sembra in vario modo confermare quanto ebbe a dire Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, evocando una fondamentale cellula tematica del suo magistero: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente» (Redemptor hominis, 10).
Scontato è registrare la distanza tra il modo con cui la parola “amore” risuona nelle intenzioni del papa e come viene comunemente articolata nel linguaggio narrativo contemporaneo. Andando oltre, però, merita soffermarsi su un dato di un certo interesse. Almeno dalla seconda metà del XX secolo, con un significativo incremento nella stagione post-conciliare, il registro dell’amore umano è stato posto al centro della riflessione ecclesiale sul matrimonio e sulla famiglia: gli è stato assegnato il compito di favorire una più convincente esposizione del proprium della sua comprensione evangelica e delle conseguenti esigenze etiche che ne garantissero la “verità”.
Questo indirizzo è stato motivato da due preoccupazioni: un’istanza dialogica verso una sensibilità condivisa degli uomini e delle donne del nostro tempo e la volontà di sciogliere il discorso ecclesiale sul matrimonio e sulla famiglia dai vincoli di un limitato approccio giuridico ed etico.
Questi rinnovati assetti della riflessione ecclesiale hanno dovuto fare i conti con gli esiti di un inatteso «cambiamento d’epoca»: nel volgere di pochi decenni il sentire comune è diventato sempre più estraneo al linguaggio cristiano circa l’uomo, l’amore, il matrimonio. Si assiste a una singolare resilienza di una considerazione “estatica” e “romantica” dell’amore stesso che – per molti – ne fa l’unico dio cui essere devoti (U. Beck).
Per questi motivi il tentativo di convergere sul valore “universale” dell’amore non ha trovato l’ascolto sperato nell’interlocutore contemporaneo, per la obiettiva differenza tra i modi con cui quel valore viene coniugato dalla mentalità dominante e dal linguaggio ecclesiale. Ogni tentativo di convergenza incontra – nello stesso punto di avvio – un’obiezione che ne rende impossibile l’esecuzione.
Ne è conseguita un’evidente incapacità a misurarsi con successo con le nuove questioni presenti nel mondo contemporaneo.
Per uscire da questa empasse bisogna tentare di cogliere le domande sottese a tante storie d’amore: esse, pur nella loro complessa varietà e distanza dai paradigmi del sentire ecclesiale, permettono di confrontarsi con il vissuto concreto delle persone alle quali la chiesa è chiamata a incontrare.
Innanzitutto, si tratta di mettersi in sintonia col desiderio di scommettere sugli affetti, senza nascondersi la complessità e il procedere mai lineare del tentativo di investire in relazioni affettive stabili e durature.
In secondo luogo, occorre valorizzare una rinnovata attenzione al legame delle generazioni, in qualche modo condizione necessaria perché ogni uomo e donna sappia amare e soprattutto sappia accettarsi come “amato”, quindi capace di perdonare e di lasciarsi perdonare.
L’ampiezza delle questioni in gioco chiede, di sicuro, molto di più che un corso come quello qui anticipato. Siamo fiduciosi, comunque, che l’attenzione a queste forme espressive del nostro tempo possa educare una sensibilità che potrà avere feconde ricadute nella riflessione e nell’agire pastorale della chiesa, chiamata a mostrare la capacità della novità cristiana di accompagnare ogni uomo a rischiare la propria libertà nel grande «lavoro» del vivere e dell’amare.