Il covid-19 e il senso della vita – intervista Pierangelo Sequeri

Partiamo dall’ipotesi che la pandemia di Covid-19 non ci ponga di fronte solamente a drammatici problemi di ordine sanitario e sociale, ma anche a una domanda sul significato complessivo, sulla destinazione ultima delle nostre vite. Nel volume Lo sguardo oltre la mascherina (pp. 112, euro 12, ebook a 9,99 euro) l’editrice Vita e Pensiero ha raccolto i brani di un “diario teologico” che Pierangelo Sequeri – una delle voci più autorevoli del cattolicesimo contemporaneo – aveva tenuto sul quotidiano “Avvenire” negli scorsi mesi di marzo e aprile; la seconda parte del libro riporta invece degli articoli scritti per lo stesso quotidiano tra il 2015 e il 2016, in occasione dell’anno giubilare della Misericordia.

Monsignor Sequeri, non abbiamo garanzie che da questa situazione “usciremo migliori”. Però l’arrivo della pandemia da coronavirus sembra aver scosso una rappresentazione del mondo per cui delegavamo senz’ altro alla tecnica il compito di risolvere i “problemi reali” della vita quotidiana, rendendola più confortevole.

“Effettivamente, la storia è maestra di vita, ma non è affatto automatico che la vita riesca a istruire la storia in modo tempestivo, efficace, durevole. Nel tempo, però, questo finisce sempre per accadere. Non accade mai soltanto per un impegno della volontà, che sotto la pressione della paura promette cose delle quali poi preferisce dimenticarsi. Accade quando si creano condizioni di saturazione e di rigetto di alcune abitudini che prima sembravano tutto sommato normali: ma che, a un certo punto, diventano motivo di imbarazzo e persino di vergogna, di fronte ai danni che procurano.
Non possiamo eliminare dalla storia le risposte cattive, che possono sempre ritornare. Però, a un certo punto, diventiamo irreversibilmente consapevoli del difetto delle risposte cattive, e ci organizziamo meglio per prevenirle e/o per curarle. In Europa, per esempio, questo è successo nel campo dell’istruzione e della sanità, che si sono insediate come tema irrevocabile del bene comune; ma anche della rivoluzione e della guerra, che hanno perso la loro ovvietà di strumenti adatti alla trasformazione e allo sviluppo delle civiltà”.

E nella fase attuale? Che cosa dovremmo apprendere da quanto sta succedendo?

“La crisi attuale sta incominciando ad accumulare disagio e intolleranza nei confronti dell’ossessione per l’individualismo del benessere, che sembrava un fattore indiscutibile di sviluppo e di progresso generale. La sua esasperazione, che ha logorato la passione per il bene comune e il legame sociale, ora mostra di essere un principio di separazione e di disuguaglianza dei singoli che trova la società impreparata.
Il Covid-19 minaccia tutti quanti; tuttavia, tendiamo a sentirci soli davanti a questo pericolo.
Nel pericolo che minaccia tutti, dove tutti hanno bisogno di tutti, non sappiamo bene su chi e su che cosa possiamo contare. Questa sensazione di abbandono, anche quando il peggio sarà passato, lascerà un segno profondo. L’obbligo di godersi una vita che il denaro può comprare e di avere successo tra i furbi che lo accumulano a spese di tutti, si scontrerà con il risentimento della maggior parte delle persone. C’è da sperare che l’appello a costruire un sistema di vita meno egoistico e meno mercantile possa attirare energie migliori e più condivise”.

Lei sottolinea spesso come, nella cultura contemporanea, convivano due narrazioni contrastanti: da un lato si esalta la libertà individuale, la possibilità di “cambiarsi d’abito” (di cambiare partner, amici, stile di vita) ogni qualvolta lo si desideri; dall’altro si afferma che i nostri pensieri e comportamenti sarebbero solo il prodotto del funzionamento di un cervello affinatosi nel corso dell’evoluzione biologica.

“La politica compulsa, i filosofi e i manuali della modernità illuministica e ci incalza con l’idea che dobbiamo essere artefici del nostro destino, liberi imprenditori della nostra vita, soggetti autonomi di tutte le nostre decisioni. La scienza guarda nei suoi vetrini e nei suoi monitor e ci spiega che gli algoritmi dei nostri pensieri e dei nostri affetti sono scritti nella complessità delle particelle, delle molecole, dei geni, che creano per noi – un po’ per automatismo, un po’ per caso – tutte le condizioni della nostra vita individuale, sociale, religiosa e morale”.

L'”io” si riduce così a un riflesso di ciò che accade “altrove”, sotto la volta cranica?

“Sì, l’infra-umano diviene la vera stanza dei bottoni: decide per noi.
L’oltre-umano sarà invece il suo potenziamento artificiale, che scavalcherà le nostre prestazioni da dilettanti. Personalmente considero la sovrapposizione di queste due grandi narrazioni, in perfetto conflitto tra loro – la politica ci dice che abbiamo il diritto di essere liberi su tutto, la scienza ci spiega che siamo schiavi di tutto – come fonte di una patologia psichica ormai socialmente diffusa.
Per forza deve produrre, anche solo inconsciamente, malinconia, irritazione, risentimento, angoscia. Abbiamo un “doppio legame” in senso psichiatrico, ossia la costrizione a obbedire simultaneamente a due imperativi contraddittori: comandi in lotta tra loro, che però si giustificano entrambi come la via da seguire”.

Pensando all’esperienza atroce di chi, nella prima fase della pandemia, non ha potuto nemmeno assistere i propri cari in fin di vita e partecipare alle loro esequie: questo caso estremo non suggerisce la necessità di ripensare il nostro rapporto con la morte e il lutto? Lei scrive: «Da che esiste civiltà umana, la morte – prima di ogni metafisica – è sempre stata concepita come passaggio. Possiamo discutere e dividerci sulla destinazione di questo oltrepassamento, ma da sempre noi umani abbiamo visto nella morte un passaggio al definitivo della vita».

“Una delle convinzioni più resistenti e arcaiche del genere umano è proprio questa: la nostra vita terrena è destinata a congedarsi e a separarsi da sé stessa; eppure, lasciare senza risposta le responsabilità che ci siamo presi – nel bene e nel male – e consegnare al nulla i nostri affetti e la loro grandezza, è una destinazione insensata, ingiusta. Impossibile. Deve esserci un’ultima giustizia delle cose e delle vite che renda ragione della nostra impotenza a garantirne il senso. Abbiamo sempre onorato così, con questa convinzione di un congedo non totale e non definitivo, i nostri morti: fin dall’alba della condizione umana. E continuiamo a riversare la dignità più alta della nostra avventura esistenziale nella tenacia con la quale rimaniamo radicati nella misteriosa promessa di un senso della vita di cui le particelle, le molecole e i geni non sanno un bel niente”.

Nella mentalità diffusa del nostro tempo, però, non si è fatta strada l’idea che la morte sia una caduta nel nulla? Un blackout definitivo?

“Penso che sia una prepotenza e un tradimento prendere alla leggera la decisione di giurare – a noi, ai nostri figli, ai nostri simili – sulla perfetta sovrapposizione della morte con un finire nel niente.
Dobbiamo accettare più lucidamente la nostra condizione mortale e affrontare più coraggiosamente la sfida nichilistica della morte. Quando rimuoviamo la morte, la vita istupidisce nel gioco delle particelle. E noi diventiamo responsabili del delirio di onnipotenza che si scatena. Ma quando attribuiamo alla morte il potere di rendere insignificante la vita che ci è stata destinata, diventiamo dei padreterni codardi. E ci rendiamo responsabili della disperazione altrui”.

Che cosa comporta, invece, credere che la misericordia di Dio possa risultare più forte di qualunque avversità e malattia? Che avrà infine la meglio anche sulla morte, suo “ultimo nemico”?

“Detto con una battuta, io penso che nel vangelo di Gesù, sottratto agli aggiustamenti del nostro linguaggio tardo-borghese, la misericordia di Dio è “l’altra faccia della luna” – ossia la profondità perfetta – della giustizia nel suo senso più alto. Quella cioè che ripara ogni sfregio recato alle creature, lanciando un appello alla conversione anche a tutti coloro che se ne fanno complici. La giustizia di Dio onora la promessa dell’atto creatore, non un semplice contratto di equivalenza del dare e dell’avere (che ha il suo campo d’esercizio legittimo: ma, come dice apertamente Gesù, sulle questioni dell’eredità potete provvedere voi). La misericordia di Dio non cede sulla destinazione alla giustizia delle cose e delle vite: proprio perché non la consegna al fallimento e alla contraddizione, limitandosi a registrare in termini notarili quanto accade. Dio non lascia la creazione, che ha tanto amato e tanto appassionatamente destinato, in balia dei suoi fallimenti. In questo senso la volontà di Dio è infinitamente superiore alla giustizia umana (“quello che è stato è stato”).
L’amore per la creatura non rinuncia alla giustizia della sua promessa: il Figlio fatto uomo viene irrevocabilmente inchiodato ai nostri fallimenti e risuscitato dalle impotenze della creatura. La misericordia di Dio rivela che la giustizia del regno di Dio, la cui perfezione è l’amore del prossimo, rimane la destinazione promessa della creazione: è la giustizia dell’amore che continua a rendersi disponibile anche quando l’amore per la giustizia si contrae nei puri limiti dello scambio equivalente o dell’adempimento legale. La misericordia è il presidio di una giustizia che non ci abbandona al nostro destino. Una giustizia impossibile agli uomini, possibile a Dio (grazie a Dio)”.

Vorremmo citare un altro suo brano, riguardo alla missione a cui sarà chiamata la Chiesa nei mesi e negli anni a venire. Lei afferma che bisognerà resistere alla tentazione di limitarsi «a ripetere “Signore, Signore!”, come fosse una parola che deve cambiare il mondo alla stregua di una formula magica. Non basta proclamare “il Cristo” come fosse il mantra ideologico di una fede dichiarata che ci esonera dalla storia vissuta, e si risparmia la fatica contadina di lavorare la terra della condizione umana e di parlare le lingue dei popoli che l’abitano».

“L’annuncio del regno di Dio non si ritrae dal lavoro che dissoda il terreno della vita per rendere più amabile e credibile il suo misterioso fermento nella vita che ora viviamo. L’appello della fede (“Credete in Dio, credete in Gesù”, “Solo in Lui c’è salvezza”) non è un atto di propaganda e di affiliazione. La Chiesa si rende conto del fatto che, quando per mancanza di sufficiente vigilanza, l’annuncio della verità cristiana è ricevuto in questi termini, il cristianesimo diventa “parte sociale” e persino “parte politica”.
E questo inquina la trasparenza della novità evangelica, dove si tratta dell’unica salvezza aperta “per tutti” e dell’unica fede necessaria “a tutti”. Proprio questo meccanismo “mondanizza” la fede”.

Impegnandosi senza riserve in questo lavoro di “dissodamento del terreno della vita”, la Chiesa non rischia di ridursi a un’agenzia umanitaria come tante altre?

“Certo, il cristianesimo non è una integrazione dello welfare. Però, è un appello di Dio che chiude definitivamente con l’idea che ci sia un popolo eletto, predestinato alla salvezza, che si formerebbe semplicemente là dove sono attestate una identità religiosamente definita e una disciplina dell’appartenenza militante. Si tratta di trovare, per il cristianesimo dell’età secolare e multi-religiosa, un’equazione analoga a quella della spiritualità benedettina che ha re-inventato il cristianesimo nell’Europa nascente: “ora et labora”. In stretta simbiosi. Siamo ancora abbastanza distanti, mi pare, dalla soluzione dell’equazione. Ma adesso è definitivamente chiaro che l’euforia kerygmatica e la chiusura elitaria non riaprono solchi che possano essere realmente seminati per la potenza della fede esibita e chiesta da Gesù”.

L’ultima nostra domanda riguarda la Fratelli tutti di Papa Francesco. L’enciclica ci invita a prendere sul serio, ad attribuire un valore “politico” al principio evangelico della fraternità?

“Mi limito a dire questo. La mossa di fondo è quella di chiudere la partita di una “fraternità sentimentale”, che incoraggia e anestetizza anime belle, ma rimane incapace di trasformare il senso del legame sociale, e di aprire l’avventura di una “complicità etica” della convivenza. Ossia, un senso profondo dell’umano che sfonda il soffitto di cristallo della cittadinanza individualmente definita: per diventare la semantica dominante del concetto di “appartenenza civile”. La fraternità non è l’estetica goliardica dei fenomeni di massa: è la passione lieta per l’edificazione di un villaggio umano abitabile, attento alla formazione delle marginalità travolte dall’anonimato della smart-city, congedato dal fanatismo religioso e rispettoso del mistero di Dio, entusiasmato dall’idea di riconquistare la città secolare ai piaceri della vita secondo lo spirito. Sarà una sfida casa per casa, piazza per piazza, scuola per scuola, generazione per generazione. La “parrocchia” dovrà cambiare pelle, letteralmente, per fronteggiare questa sfida: non sarà un giardino che abbellisce l’esilio dei rifugiati, ma un punto di ristoro per quelli che vogliono impegnarsi a coltivare anche il deserto. Qualcosa (anzi molto) di questo spirito, papa Francesco aveva già anticipato nelle altre encicliche. In questa, ha individuato un punto di sintesi nella sfida che ci attende: lo spirito complice della fraternità deve cambiare il verso allo spirito predatorio della competizione. Indietro non si torna, in ogni caso: il passaggio del Mar Rosso è questo”.

(La Provincia di Sondrio, 28 novembre 2020)