Per un sapere della pace

di Gilfredo Marengo

La seconda parte della Costituzione pastorale Gaudium et spes, in cui il Vaticano II intese rivolgere la sua attenzione ad «Alcuni problemi più urgenti » della società del tempo, si apre con un capitolo dedicato al matrimonio e famiglia e si chiude con uno dal titolo «La promozione della pace e la comunità delle nazioni».

L’inclusione che incornicia questa importante sezione del documento conciliare mette in luce quanto tali temi esprimessero due ambiti decisivi per una rinnovata presenza della Chiesa nel mondo: efficacemente il dibattito venne condensato in quegli anni intorno al binomio “pillola (contraccettiva) e bomba (atomica)”.

Misurarsi con queste problematiche ha rappresentato un singolare momento di verifica del profilo pastorale assegnato al Concilio da Giovanni XXIII che si cercò di realizzare compiutamente proprio in Gaudium et spes. Si trattava, ancora facendo seguito agli intenti del Pontefice, di «interpretare i segni dei tempi» (GS 4): in proposito i temi della famiglia e della pace possedevano una capacità unica di provocazione e di sfida in questa impresa.

Essi erano di sicuro “problemi urgenti” nella società del tempo, ma tale urgenza portava in sé un accento originale: da sempre la Chiesa si era occupata della famiglia  della guerra, elaborando progressivamente un corpus dottrinale ampiamente condiviso, ma entrambe queste realtà si presentavano agli occhi dei Padri conciliari con una fisionomia per certi versi profondamente mutata e non sempre assimilabile ai paradigmi con cui tradizionalmente erano state interpretate.

Se si prende in esame il tema della guerra e della pace, il fattore di novità era rappresentato dal fatto che negli ultimi due secoli, a partire dall’età napoleonica, ma con particolare evidenza nel corso del primo conflitto mondiale, la guerra aveva acquisito un nuovo carattere: era diventata guerra totale.
Questo fenomeno ha collaborato a mettere progressivamente in discussione la nozione di “guerra giusta” sulla quale – fin dalla stagione di Agostino – si era incardinato l’insegnamento ecclesiale. La figura di “guerra totale” sembrava contestare la possibilità stessa di parlare di una “guerra giusta”: nella stagione conciliare l’enciclica Pacem in terris parve sancire questa prospettiva affermando che «alienum est a ratione [è assurdo, una follia] pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia».

A questo livello è emersa la complessità dell’esecuzione del processo di “aggiornamento” intorno al quale si era condensata gran parte delle energie spese durante i lavori conciliari. Quel paradigma fu normalmente inteso come invito a un certo rinnovamento dell’insegnamento ecclesiale, soprattutto un cambio di stile e di linguaggio nei modi con cui la Chiesa intendeva misurarsi con la società del tempo. Procedere in questa direzione poteva far presumere che i contenuti fondamentali dell’insegnamento ecclesiale (dottrina) non erano in discussione: si trattava solamente di esporli in maniera più corrispondente all’interlocutore contemporaneo.

Un tale indirizzo incontrava serie difficoltà ad essere applicato nei casi, come la guerra, in cui l’oggetto di cui ci si doveva occupare aveva mutato profondamente fisionomia. Era inevitabile registrare uno scarto tra il contenuto della dottrina, senz’altro da aggiornare, e la realtà a cui essa si rivolgeva, per proporne una lettura evangelicamente convincente.

A questo scarto soggiaceva un delicato problema di metodo ben presente nella polarità dottrina-pastorale, tipica di tutta la stagione post-conciliare fino ai nostri giorni.

Lasciarsi provocare dai «segni dei tempi », per giungere a decifrare bene la temperie storica del presente, suscitava interrogativi su contenuti e metodi così radicati nel tessuto della riflessione ecclesiale che metterli in discussione sembrava quasi inconcepibile.

(estratto dall’introduzione del libro Per un sapere della paceLibreria Editrice Vaticana, 2020)